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Alcune spigolature sugli statuti degli enti del terzo settore

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È ormai noto che per confermare il loro status di onlus, organizzazioni di volontariato (d’ora in poi odv) o associazioni di promozione sociale (in seguito aps) gli enti che oggi così si qualificano devono adeguare entro il prossimo 3 agosto il loro statuto alla disciplina del codice del terzo settore (D.Lgs. 117/2017, di seguito anche cts).

 

Il Ministero del Lavoro ha diramato negli ultimi giorni dell’anno scorso una specifica circolare (circolare n. 20 del 27.12.2018) nella quale sono contenute importanti indicazioni sulle modalità tramite le quali operare questo adeguamento.

 

Tutto chiaro? Purtroppo no; la lettura del codice continua ad offrire dubbi a tutte le numerose associazioni che si stanno preparando a questo adempimento.

 

Proviamo ad analizzarne qualcuno.

 

Iniziamo dall’articolo 21, il cui primo comma contiene le indicazioni che obbligatoriamente dovranno essere indicate nello statuto.

 

Dovrà essere riportata la “sede legale”. Ma qui si pone il problema se dovrà essere riportato l’indirizzo completo oppure, come accade dalla riforma del diritto societario, ai sensi degli articoli 2328 e 2463 cod. civ., per le società, solo la città (“…la denominazione, contenente l’indicazione di società a responsabilità limitata, e il comune ove sono poste la sede della società e le eventuali sedi secondarie…”) in quanto poi il dato è ricavabile dal registro delle imprese.

 

Essendoci anche qui una forma di pubblicità analoga (il Registro Unico nazionale del Terzo settore, di seguito Runts) potrebbe ritenersi sufficiente l’indicazione del comune, ma il tenore letterale della norma sembra andare in direzione diversa.

 

Viene poi indicato “il patrimonio iniziale ai fini di un eventuale riconoscimento della personalità giuridica”. Ne derivano tre dubbi:

 

  • il primo è se tale indicazione dovrà essere riportata anche da quelle associazioni che non hanno intenzione di richiedere il riconoscimento della personalità giuridica ex articolo 22 cts,
  • il secondo si concentra sul “come” determinarlo, trattandosi di associazioni in gran parte già da tempo costituite e con contabilità semplificate (perizia giurata che, comunque, fotograferebbe il patrimonio attuale e non quello iniziale),
  • il terzo legato al tempo che intercorrerà con la possibilità di richiedere la personalità giuridica ai sensi del citato articolo del codice. Infatti è pacifico che la procedura di cui all’articolo 22 sarà praticabile solo quando il Runts sarà operativo e, pertanto, nelle migliori delle ipotesi dal primo gennaio del prossimo anno. Ne consegue che, al momento della richiesta al notaio per il riconoscimento, il patrimonio potrebbe essere ben diverso da quello oggi indicato in sede di modifica statutaria.

 

L’articolo 32 indica che le organizzazioni di volontariato debbono essere costituite “da un numero non inferiore a sette persone fisiche”. Analoga norma è imposta alle aps. Il decreto correttivo (D.Lgs. 105/18) ha stabilito che, per entrambe le tipologie di enti, se il numero di associati calasse, dovrebbe essere ripristinato “entro un anno” a pena della cancellazione dal Registro.

 

La domanda è il “dies a quo” di quest’anno “cuscinetto” stabilito dl legislatore. È l’intero esercizio sociale successivo a quello all’interno del quale è venuto meno il numero minimo di associati stabilito per legge oppure sono i dodici mesi successivi al recesso del settimo associato?

 

Sia l’articolo 33 per le odv che l’articolo 36 per le aps prevedono che il numero “dei lavoratori impiegati nell’attività” non sia superiore al cinquanta per cento dei volontari per le odv e ad analoga percentuale o, in alternativa, al cinque per cento degli associati per le aps.

 

Tali requisiti costituiscono, in molti casi, uno degli ostacoli maggiori alla conferma della natura di odv o aps delle odierne associazioni.

 

Innanzitutto andrebbe chiarito se, con il termine “lavoratori” si debba intendere chiunque percepisca compensi per attività svolta in favore della associazione indipendentemente dall’inquadramento oppure si riferisce solo ai subordinati.

 

Ma i problemi sono ulteriori.

 

Quando questa proporzione dovrà essere determinata? Il principio della porta aperta, tipico delle associazioni, rende estremamente variabile il numero degli associati mentre analoga variabilità non potrà mai essere prevista per i lavoratori.

 

Nel caso in cui avessimo collaboratori “retribuiti” in eccesso, come rimediare? L’esercizio trascorso in difformità dal disposto di cui all’articolo 36 cts potrà in qualche modo e per qualche ragione essere invalidato? Ciò premesso, per quello successivo l’associazione potrebbe esimersi dall’utilizzare questa forma di rimborsi.

 

Nel caso in cui, invece, che di collaboratori ex articolo 67 Tuir, ci fossimo trovati di fronte a lavoratori subordinati e dovendo rientrare nella percentuale dell’articolo 36, come sarebbe possibile fare? Appare chiaro che questa non potrebbe mai essere “giusta causa” di risoluzione del rapporto.

 

Andrebbe chiarito se, in caso di necessità di arrotondamenti questi debbano avvenire per eccesso o per difetto.

 

Attendiamo indicazioni.

 


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