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L’opinione

Lo sport e la riforma del terzo settore – I° parte

18/09/2017 di Guido Martinelli

La riforma del terzo settore, introdotta nel nostro ordinamento con la L. 106/2016, si è concretizzata con l’approvazione di quattro decreti legislativi:

 

1) D.Lgs. 40/2017 “Istituzione e disciplina del servizio civile universale a norma dell’articolo 8 della legge 6 giugno 2016 n. 106”;

 

2) D.Lgs. 111/2017 “Disciplina dell’istituto del cinque per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche a norma dell’articolo 9 comma 1 lettera c) e d) della legge 6 giugno 2016 n. 106”;

 

3) D.Lgs. 112/2017 “Revisione della disciplina in materia di impresa sociale a norma dell’articolo 2 comma 2 lettera c) della legge 6 giugno 2016 n. 106”;

 

4) D.Lgs. 117/2017 “Codice del terzo settore a norma dell’articolo 1 comma 2 lettera b) della legge 6 giugno 2016, n. 106”.

 

Il primo istituisce il servizio civile universale a cui possono accedere i giovani tra i 18 e i 28 anni per un periodo compreso tra gli otto e i dodici mesi. Tra i settori di intervento oggetto delle attività del nuovo istituto, l’articolo 3, lett. e), prevede: “educazione e promozione culturale dello sport”. Pertanto, le sportive rientrano a pieno titolo tra quelle ricomprese nelle attività del servizio civile universale.

 

L’articolo 3 del decreto sul cinque per mille prevede, al suo comma 1, lett. e), sulla falsariga di quanto applicato fino ad oggi, che tra i soggetti potenzialmente destinatari di questa contribuzione ci siano anche le: “associazioni sportive dilettantistiche riconosciute ai fini sportivi dal Comitato olimpico nazionale italiano a norma di legge che svolgono una rilevante attività di interesse sociale”. Confermato, quindi, che le società di capitale e le cooperative sportive dilettantistiche, invece, non potranno godere di questi contributi.

 

Già la lettura di questo decreto, però, nel momento in cui elenca le associazioni sportive dilettantistiche tra i soggetti destinatari del cinque per mille, distinguendoli dai nuovi “enti del terzo settore” previsti alla lettera “a” del citato articolo 3, ci consente di capire meglio i contenuti, nei rimanenti due decreti legati allo svolgimento di attività sportive.

 

Si chiarisce in premessa che le imprese sociali, ai sensi di quanto previsto dal primo comma dell’articolo 3 del codice del terzo settore (da ora in avanti CTS), sono a tutti gli effetti “enti del terzo settore” pur se disciplinati da un autonomo decreto.

 

Il CTS disciplina gli enti “associativi”, mentre quello sulle imprese sociali gli enti senza scopo di lucro che siano costituiti anche “nelle forme previste dal libro quinto del codice civile”. Pertanto, concettualmente, le associazioni sportive dilettantistiche “potrebbero” essere enti del terzo settore mentre le società sportive di capitali o le cooperative necessariamente potrebbero essere solo imprese sociali.

 

Gli enti del terzo settore tipizzati sono i seguenti:

 

a) le organizzazioni di volontariato;

b) le associazioni di promozione sociale;

c) le imprese sociali;

d) le società di mutuo soccorso.

Vengono poi aggiunti, non previsti nella legge delega, o solo richiamati incidentalmente:

e) gli enti filantropici;

f) le reti associative.

 

Infine sono previsti, come norma di chiusura: “Le associazioni, riconosciute o non riconosciute, le fondazioni e gli altri enti di carattere privato diversi dalle società costituiti per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale”.

 

Detti enti devono necessariamente svolgere una attività di “interesse generale” espressamente elencata. Tra le 26 contenute nell’articolo 5 del CTS ritroviamo: “t) organizzazione e gestione di attività sportive dilettantistiche”.

 

Da quanto sopra riportato si ricava una prima conclusione. Il CTS non tipizza le associazioni sportive, contrariamente a quanto previsto, invece, ad esempio per le associazioni di promozione sociale, le colloca, astrattamente, nell’ultima categoria di enti del terzo settore “generalista” sopra riportata, prevedendo espressamente, però, la possibilità di svolgere la loro attività istituzionale.

 

Questo porta ad una prima importante conclusione: una associazione sportiva può ma non deve diventare un ente del terzo settore. Ma bisogna fare attenzione a un punto. Molte associazioni sportive dilettantistiche sono “anche” associazioni di promozione sociale. La associazione di promozione sociale che sia iscritta al registro CONI e svolge attività sportiva come ASD, invece, è di diritto ente del terzo settore.

 

Discorso similare andremo a fare per le società sportive dilettantistiche.

 

Infatti l’articolo 1 del D.Lgs. 112/2017 sull’impresa sociale prevede che: “Possono acquisire la qualifica di impresa sociale tutte le organizzazioni private, incluse quelle costituite nelle forme di cui al libro V del codice civile che, in conformità alle disposizioni del presente decreto, esercitano in via stabile e principale un’attività d’impresa di interesse generale, senza scopo di lucro”.

 

Anche qui il legislatore enuncia all’articolo 2 una serie di attività di interesse generale tra le quali colloca: “r) Organizzazione e gestione di attività sportive dilettantistiche”.

 

Stante l’utilizzo del termine “possono” da parte della norma istitutiva ne deriva che le società di capitali e le cooperative sportive dilettantistiche possono ma non devono diventare imprese sociali.

 

 

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La disciplina sui defibrillatori nello sport. Approfondimenti

28/08/2017 di Guido Martinelli

L’ormai imminente inizio della stagione sportiva 2017/18 impone, dopo la nostra circolare emanata nei giorni immediatamente successivi alla notizia dell’imminente pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto attuativo dell’obbligo del defibrillatore nelle attività sportive, un ulteriore approfondimento.

 

Con decreto 26 giugno 2017, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 149 del 28.06.2017 il Ministro della Salute, di concerto con il Ministro dello sport ha diramato le linee guida sulla dotazione e l’utilizzo dei defibrillatori da parte di associazioni e società sportive dilettantistiche ponendo termine alle numerose proroghe nel frattempo succedutesi e facendo entrare in pieno vigore l’obbligo del salvavita nello sport.

 

La norma era stata introdotta nel nostro ordinamento con l’art. 5 del decreto 24.04.2013 del Ministero della Salute (in G.U. n. 169 del 20.07.2013) e la cui applicazione era stata più volte differita in attesa di chiarimenti sulle modalità con le quali detto obbligo poteva intendersi rispettato.

 

Numerosi erano i quesiti applicativi irrisolti che il citato decreto, meglio noto come Balduzzi, aveva lasciato irrisolti per gli operatori e che avevano costretto a differire, per oltre quattro anni, la piena entrata in vigore della disciplina.

 

Con il decreto in esame, emanato sentito il Coni, viene data una lettura che appare non esaustiva rispetto ai contenuti del decreto originario. Se, in partenza, veniva previsto che le società si sarebbero dovute dotare di defibrillatori e avere l’onere della manutenzione a proprio carico (art. 5 co. 6 D.M. 24.04.2013)  si ritiene che, ora, le modalità applicative introdotte dal nuovo decreto consistano nella verifica imposta alle associazioni e società sportive dilettantistiche, qualora e solo nel caso in cui utilizzino un impianto sportivo avente carattere permanente e definito sulla base di quanto previsto dall’art. 2 del decreto Ministero dell’Interno 18.03.1996 (“insieme di uno o più spazi di attività sportiva dello stesso tipo o di tipo diverso che hanno in comune i relativi spazi e servizi accessori preposti allo svolgimento di manifestazioni sportive” e che si dividono in impianti sportivi all’aperto e impianti sportivi al chiuso) che il medesimo sia dotato di defibrillatore automatico o a tecnologia più avanzata e che sia presente una persona debitamente formata all’utilizzo del dispositivo “durante le gare inserite nei calendari delle Federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate, durante lo svolgimento di attività sportive con modalità competitive ed attività agonistiche di prestazione organizzate dagli enti di promozione sportiva nonché durante le gare organizzate da altre società dilettantistiche”.

 

Stante l’assenza di una definizione più precisa di impianto sportivo si ritiene che debba essere considerato come tale quella struttura che sia stata omologata dalla Federazione sportiva nazionale, disciplina sportiva associata o ente di promozione sportiva e dalle medesima autorità che hanno provveduto al riconoscimento ai fini sportivi del sodalizio, ritenuta idonea allo svolgimento di prestazioni sportive a carattere agonistico.

 

Si ricorda che viene espressamente previsto che l’impianto debba essere a carattere permanente. Pertanto non potranno essere considerati ricompresi nella disposizione in esame le strutture provvisorie create per manifestazioni occasionali (vedi ad esempio impianti per giochi sulla sabbia tipo beach volley).

Pertanto i sodalizi sportivi dovranno verificare, “prima dell’inizio delle gare e per il tramite di propri referenti all’uopo incaricati” la presenza del defibrillatore e della persona debitamente formata. In assenza non si potrà dare inizio alla gara. Nonché sarà necessario verificare che sia stata effettuata la corretta manutenzione dell’apparato.

 

Pertanto nessuna sanzione potrà essere posta in capo alla società sportiva che non possegga un proprio defibrillatore, salva la circostanza che non potrà fare attività in impianti che non ne siano dotati e/o che non garantiscano la presenza di soggetto abilitato, evidentemente fatte salve le eventuali prescrizioni e sanzioni previste dall’ordinamento sportivo per la mancata disputa dell’incontro.

 

Le disposizioni non si applicano “alle gare organizzate dalle associazioni e società sportive dilettantistiche … al di fuori degli impianti sportivi” e per le attività a basso rischio cardiocircolatorio di cui al citato decreto ministeriale (bocce – escluse bocce in volo – biliardo, golf, pesca sportiva di superficie, caccia sportiva, sport di tiro, giochi da tavolo e sport assimilabili) e all’allegato A al decreto ( in cui ritroviamo le discipline del tiro, sia a segno che a volo, la pesca sportiva, le armi sportive, il biliardo, le bocce, la dama, in genere attività non praticate comunque nei centri sportivi).

 

Da tutto quanto sopra, sembra emergere che:

1.      nei centri e nelle palestre che non ospitano attività agonistiche non sussiste, almeno ai sensi della disciplina in esame, alcun obbligo di presenza del defibrillatore e del personale idoneo all’utilizzo. Per attività agonistica si deve intendere qualsiasi manifestazione sportiva, anche a carattere non ufficiale, che preveda un risultato e/o una classifica e/o una graduatoria e/o una premiazione

2.      per impianto sportivo a carattere permanente dovrà essere intesa una struttura omologata a tal fine da una Federazione sportiva nazionale, disciplina sportiva associata o ente di promozione sportiva o, comunque, ritenuta dal medesimo ente che ha provveduto al riconoscimento sportivo dei soggetti partecipanti, idonea, in maniera permanente ad ospitare manifestazioni sportive a carattere agonistico

3.      analogamente tale obbligo non sussiste durante gli allenamenti o per le manifestazioni sportive che abbiano luogo all’aperto (mare, strade, boschi), in aree in parole povere che non possono essere classificate come impianti sportivi in quanto non delimitate o circoscritte in maniera permanente

4.      il defibrillatore non dovrà essere, necessariamente, di proprietà della associazione o società sportiva così come il personale idoneo all’utilizzo può essere anche di terzi ma resta a carico della sportiva l’onere di verificarne l’esistenza, la manutenzione e la presenza delle risorse umane necessarie prima dell’inizio di ogni gara

5.      l’unica conseguenza prevista per gli impianti sportivi non dotati di defibrillatore sarà la loro non idoneità ad ospitare manifestazioni agonistiche

6.      la responsabilità della società sportiva (si ritiene quella ospitante) sussisterà solo se darà comunque inizio alla gara in assenza della verifica della presenza del defibrillatore e del personale formato per il suo utilizzo.

7.      La squadra ospitata si ritiene possa astenersi legittimamente dallo scendere in campo in assenza nell’impianto del dispositivo e del personale idoneo all’utilizzo. Si pone in tal caso il problema delle spese di trasferta sostenute da tale formazione. Potranno essere richieste? A primo avviso la risposta è negativa non sussistendo l’obbligo in capo all’ospitante o al gestore dell’impianto. Si tratterrà, poi, di vedere come le singole organizzazioni sportive disciplineranno al loro interno tale fattispecie.

 

A seguito della interrogazione presentata da alcuni parlamentari il Ministro per lo sport ha ricordato, testualmente che il decreto impone l’obbligo: “ alle società sportive dilettantistiche che utilizzano un impianto sportivo permanente a dotarsi di un defibrillatore: senza la presenza di un dispositivo salvavita semiautomatico o a tecnologia più avanzata l’impianto sportivo non potrà essere utilizzato né per le gare né per gli allenamenti” ampliando in maniera impropria il campo di azione del decreto agli allenamenti, di cui il testo normativo non fa cenno.

 

Ma, in più, ricorda che gli obblighi gravano solo sulle discipline sportive riconosciute dal Coni. Pertanto quelle attività non ricomprese nelle 385 riconosciute dal Coni (il Ministro nelle sue dichiarazioni fa ancora erroneamente riferimento al primo elenco del Coni che ne conteneva 396) sarebbero fuori dal decreto e, di conseguenza, dall’obbligo del defibrillatore anche in presenza di attività svolta con modalità competitive..

 

Ma tali riferimenti non tengono conto della legislazione regionale che si è nel frattempo formata in materia. Ad esempio la Regione toscana con propria legge 9.10.2015 n. 68 e successivo decreto di attuazione 22.06.2016 n. 38 aveva già previsto un ben più ampio obbligo del salvavita, posto in capo ai gestori di impianti sportivi, a prescindere dal tipo di attività che venisse svolta all’interno.

 

Possiamo quindi ritenere poste fuori dall’obbligo le palestre o i centri sportivi che non ospitano attività competitive?

 

La risposta è sicuramente negativa per coloro i quali risiedono in una regione che abbia autonomamente disciplinato la materia.

 

Ma, probabilmente, non lo sono neanche gli altri, stando che le linee direttive del decreto Balduzzi, allegate al decreto del 2013 e mai venute meno, ne segnalavano comunque l’obbligo in tutte le strutture sportive.

 

Infatti l’ultimo comma del punto 3 delle linee guida allegate al decreto del 2013 testualmente riporta: “ Fermo restando l’obbligo della dotazione di DAE da parte di società professionistiche e dilettantistiche, si evidenzia l’opportunità di dotare, sulla base dell’afflusso degli utenti e di dati epidemiologici, di un defibrillatore anche i luoghi quali centri sportivi, stadi palestre, ed ogni situazione nella quale vengono svolte attività in grado di interessare l’attività cardiovascolare.

 

Ne deriva che potrebbe essere chiamato a rispondere il gestore di palestra o di impianto sportivo che, pur non ospitando attività agonistica, preveda al proprio interno lo svolgimento di discipline che non siano tra quelle a basso rischio cardiocircolatorio.

 

Si ricorda, inoltre, che ove l’apparato salvavita sia collocato all’interno di una autombulanza, sarà necessario indicare all’interno dell’impianto dove la stessa è parcheggiata per consentire l’immediata reperibilità del defibrillatore.

 

Finiti i dubbi. Purtroppo no.

 

Infatti l’altro problema è il titolo abilitativo che dovrà essere posseduto dall’addetto all’apparato salvavita. E’, infatti, universalmente riconosciuto come sufficiente il c.d. brevetto BLSD (Basic Life Support Defibrillation). Le stesse linee guida allegate al decreto Balduzzi al punto 4.2 sotto la rubrica formazione letteralmente riportano al quarto comma: “ I corsi di formazione metteranno in condizione il personale di utilizzare con sicurezza i DAE e comprendono l’addestramento teorico pratico alle manovre di BLSD (Basic life support and defibrillation) anche pediatrico quando necessario”.

 

Ma il comma 7 dell’art. 5 del decreto del 2013, nella sua seconda parte, testualmente riporta: “Il Coni, nell’ambito della propria autonomia, adotta protocolli di pronto soccorso sportivo defibrillato (PSSD) della Federazione Medico Sportiva”. Pertanto sembra che il Coni sia stato delegato ad individuare, per le proprie specifiche attività, quale sia il livello formativo minimo previsto per gli addetti al salvavita

 

Questo inciso viene richiamato nella circolare Coni del 4 luglio 2017 dove si ricorda che per persona debitamente formata all’utilizzo del dispositivo al fine del rispetto della norma si dovrà: “fare riferimento a quanto previsto dall’art. 5 comma sette del decreto ministeriale 24 aprile 2013”.

 

Tale necessità risulta anche confermata dalla circolare del 16 giugno 2017 della Federazione Medico sportiva Italiana, a firma del Segretario Generale la quale espressamente riporta che: “ in virtù del decreto sopra richiamato il solo corso di BLS, il solo uso del defibrillatore, non è sufficiente per le società sportive che devono essere formate anche nel primo soccorso sportivo”.

 

Di conseguenza potrebbe “non essere sufficiente” avere nell’impianto una persona che abbia fatto solo il corso BLSD.

 

Si ricorda, infine, il punto 4.5 delle linee guida allegate al decreto del 2013 che prevede che: “l’attività di soccorso non rappresenta per il personale formato un obbligo legale che è previsto soltanto per il personale sanitario”.   

 

   

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Nuove associazioni di volontariato e di promozione sociale – I° parte

28/07/2017 di Guido Martinelli

La disciplina delle organizzazioni di volontariato, introdotta nel nostro ordinamento con la L. 266/1991 e quella delle associazioni di promozione sociale, di cui alla L. 383/2000 è stata fortemente novellata con la definitiva approvazione del nuovo codice del terzo settore.

 

Negli intendimenti del legislatore degli anni ‘90 il volontariato era caratterizzato dall’operare “esclusivamente per fini di solidarietà” (articolo 2, comma 1, L. 266/1991) mentre la promozione sociale svolgeva o avrebbe potuto svolgere attività sociale anche in forma mutualistica in favore dei propri associati (articolo 2, comma 1, L. 383/2000).

 

La nuova disciplina prevede che le organizzazioni di volontariato possano svolgere una delle ventisei attività elencate all’articolo 5 del nuovo decreto “prevalentemente in favore di terzi”; le associazioni di promozione sociale possono svolgere le medesime attività: “in favore dei propri associati, di loro familiari o di terzi”.Appare evidente che, almeno sotto il profilo della tipologia di attività svolta, la differenza tra le due fattispecie si è oggi fortemente ridotta, se non annullata.

 

Il codice del terzo settore abroga entrambe le leggi speciali citate (articolo 102 comma 1) e disciplina i soggetti in esame, all’interno degli enti del terzo settore, nel titolo quinto del codice, agli articoli 32 e seguenti.

 

Mentre la L. 266/1991 riteneva che poteva considerarsi organizzazione di volontariato “ogni organismo liberamente costituito”, (l’articolo 3, comma 2, della abrogata legge prevedeva espressamente: “le organizzazioni di volontariato possono assumere la forma giuridica che ritengono più adeguata al perseguimento dei propri fini”) il nuovo codice, conformemente a quanto aveva già affermato la prassi amministrativa, ne prevede la possibilità di costituirsi solo in forma di associazione riconosciuta e non. Ma, questa è la vera novità, viene introdotto anche un limite numerico ai componenti: potranno essere tali solo quelle associazioni che abbiano un numero di associati persone fisiche non inferiore a sette o un numero di associati altre organizzazioni di volontariato non inferiore a tre. Quindi si supera anche il presupposto che gli associati possano essere solo persone fisiche volontarie. Infatti, il secondo comma dell’articolo 32 prevede che come associati possano essere anche altri enti del terzo settore, o addirittura soggetti non iscritti a tale registro, purché senza scopo di lucro, con il solo limite che il loro numero non sia superiore al 50% delle organizzazioni di volontariato associate.

 

Nella primitiva disciplina gli associati potevano essere solo volontari e le organizzazioni potevano “assumere lavoratori dipendenti o avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo esclusivamente nei limiti necessari al loro regolare funzionamento oppure occorrenti a qualificare o specializzare l’attività da esse svolta” che, pertanto, erano terzi rispetto alla organizzazione di volontariato. Il codice, all’articolo 33, ribadisce che possono essere assunti lavoratori dipendenti o che si possa avvalersi di prestazioni di lavoro autonomo “o di altra natura” e qui, onestamente, non si comprende questo inciso aggiunto a quale fattispecie lavorativa possa riferirsi, sempre negli stessi limiti già indicati dalla L. 266/1991, ma che: “in ogni caso il numero dei lavoratori impiegati nell’attività non può essere superiore al cinquanta per cento del numero dei volontari”.

 

Gli amministratori dovranno necessariamente essere scelti tra le persone associate ovvero associate ad una delle organizzazioni di volontariato associate. Viene previsto, contrariamente alla disciplina precedente, che non potranno essere nominati come tali gli interdetti, gli inabilitati, i falliti o coloro che sono interdetti anche temporaneamente dai pubblici uffici.

 

Ai componenti degli organi sociali, ad esclusione dei componenti professionali del collegio dei revisori dei conti, potrà essere riconosciuto solo il rimborso delle spese documentate per l’attività prestata nello svolgimento della propria funzione.

 

Viene meno l’ulteriore indicazione, prima prevista, che il rimborso dovesse essere “entro limiti preventivamente stabiliti dalle organizzazioni stesse”.

 

Le organizzazioni di volontariato potranno godere di specifici finanziamenti legati alle emergenze sociali e all’applicazione di metodologie di intervento particolarmente avanzate previste dall’articolo 74 del decreto. Inoltre, godranno di ulteriori contribuzioni per l’acquisto di autoambulanze, autoveicoli per attività sanitarie e beni strumentali utilizzati direttamente ed esclusivamente per attività di interesse generale. Potranno, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 76, comma secondo, in alternativa al contributo, godere di una corrispondente riduzione del prezzo, pari all’aliquota Iva praticata. Il venditore recupererà l’imposta mediante compensazione ai sensi di quanto previsto dall’articolo 17 D.Lgs. 241/1997.

 

 

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I nuovi adempimenti per le associazioni del terzo settore

19/07/2017 di Guido Martinelli

Gli enti che vorranno iscriversi nell’istituendo registro del terzo settore, così entrando a pieno titolo all’interno della riforma recentemente approvata, si dovranno, però, porre il problema dei nuovi obblighi che il codice del terzo settore (d’ora in avanti CTS) impone loro.

 

Il primo appare essere legato alle modifiche statutarie per gli enti già costituiti alla data di entrata in vigore della riforma. Infatti, ai sensi di quanto previsto dall’articolo 21 l’atto costitutivo deve indicare: “l’assenza di scopo di lucro e le finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale perseguite, l’attività di interesse generale che costituisce l’oggetto sociale,” – che dovrà, in questo ultimo caso, essere necessariamente ricompresa nelle 26 attività ricomprese nell’articolo 5 del CTS – “il patrimonio iniziale ai fini dell’eventuale riconoscimento della personalità giuridica, le norme sull’ordinamento, l’amministrazione e la rappresentanza dell’ente, i diritti e gli obblighi degli associati …, i requisiti per l’ammissione di nuovi associati … e la relativa procedura  secondo criteri non discriminatori, coerenti con le finalità perseguite e l’attività di interesse generale svolta … le norme sulla devoluzione del patrimonio residuo in caso di scioglimento o di estinzione…”.

 

A questo dettagliato elenco dovremo aggiungere che gli enti del terzo settore dovranno integrare nella loro denominazione sociale l’acronimo ETS (articolo 12 CTS), le organizzazione di volontariato ODV (articolo 32 comma 3) e le associazioni di promozione sociale APS (articolo 35 comma 5). Di tale acronimo si dovrà fare uso negli atti, nella corrispondenza e nelle comunicazioni al pubblico.

 

Ma la sorpresa maggiore la ricaviamo dalla lettura dell’articolo 25 laddove viene previsto che l’assemblea delle associazioni, riconosciute o non, del terzo settore dovrà, necessariamente, tra le altre, avere competenza (e quindi se ne dovrà disciplinare le procedure) sulla revoca dei componenti degli organi sociali, sulla nomina e revoca del soggetto incaricato della revisione legale dei conti, se e ove nominato, sulla responsabilità dei componenti degli organi sociali e sulla possibilità di promuovere un’azione di responsabilità nei loro confronti, sulla trasformazione, fusione, o scissione della associazione.

 

Alla luce di quanto sopra appare, pertanto, certa la necessità di mettere mano agli statuti delle associazioni. E qui ci potremo trovare di fronte ad una beffa. Infatti il comma 3 dell’articolo 82 prevede che le modifiche statutarie poste in essere dagli enti del terzo settore allo: “scopo di adeguare gli atti a modifiche o integrazioni normative” siano esenti dall’imposta di registro. Ma, salvo interpretazioni pro contribuente da parte dell’Agenzia, applicandosi la norma ai soggetti che già fanno parte del terzo settore, la stessa potrebbe non potersi applicare per le modifiche statutarie necessarie ad acquisire i requisiti necessari per accedervi.

 

Va ricordato che, ai sensi dell’articolo 6 del CTS, ove l’associazione voglia svolgere attività “diverse” da quelle di cui al precedente articolo 5, lo potrà fare solo se queste siano secondarie e strumentali rispetto alle attività di interesse generale e: “a condizione che l’atto costitutivo e lo statuto lo consentano”.

 

Vengono poi introdotti numerosi adempimenti formali fino ad oggi mai disciplinati nel dettaglio da una norma di legge.

 

Dovrà essere redatto un bilancio, con criteri diversi sulla base del volume d’affari, conforme alla “modulistica definita con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali sentito il consiglio nazionale del terzo settore”. Detto bilancio dovrà essere depositato presso il Registro unico nazionale del terzo settore.

 

In presenza di ricavi superiori ai centomila euro si dovranno pubblicare nel sito internet della associazione “gli eventuali emolumenti, compensi o corrispettivi a qualsiasi titolo attribuiti ai componenti degli organi di amministrazione e controllo, ai dirigenti nonché agli associati”.

 

Dovrà essere tenuto, ai sensi dell’articolo 17: “un apposito registro” in cui iscrivere i volontari che svolgono la loro attività in modo non occasionale.

 

Diventa, infine, ai sensi dell’articolo 15, obbligatoria la tenuta dei libri sociali.

 

Questi consisteranno nel libro degli associati, quello per i verbali delle assemblee, quello per le deliberazioni dell’organo di amministrazione e dell’organo di controllo.

 

Viene precisato che gli associati hanno diritto di esaminare i libri sociali “secondo le modalità previste dall’atto costitutivo o dallo statuto”.

 

Come abbiamo cercato di dimostrare la riforma appare ostica anche in quella che sarebbe dovuta essere, sulla base della legge delega (articolo 2, comma 1, lett. c), L. 106/2016), la necessità di assicurare: “l’autonomia statutaria degli enti”.

 

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Decreto attuativo disposizione defibrillatori

27/06/2017 di Guido Martinelli

Il Ministro dello Sport Luca Lotti ha ufficialmente confermato, con un comunicato stampa, l’entrata in vigore, a partire dal prossimo primo luglio, dell’obbligo, in capo alle società e associazioni sportive dilettantistiche, di dotarsi di un defibrillatore semiautomatico e di formare personale adeguato al suo utilizzo.

 

La norma era stata introdotta nel nostro ordinamento con l’art. 5 del decreto 24.04.2013 del Ministero della Salute (in G.U. n. 169 del 20.07.2013) e la cui entrata in vigore era stata più volte differita in attesa di chiarimenti sulle modalità con le quali detto obbligo poteva intendersi rispettato.

 

Con il decreto preannunciato, emanato di concerto tra il Ministero della Salute e quello dello Sport, sentito il Coni, il cui testo originario ufficiale non è ancora disponibile (pertanto queste note sono state redatte sulla base di articolati apparsi in rete)  si ritiene che le modalità applicative consistano nella verifica imposta alle associazioni e società sportive dilettantistiche, qualora utilizzino un impianto sportivo avente carattere permanente e definito sulla base di quanto previsto dall’art. 2 del decreto Ministero dell’Interno 18.03.1996 (“insieme di uno o più spazi di attività sportiva dello stesso tipo o di tipo diverso che hanno in comune i relativi spazi e servizi accessori preposti allo svolgimento di manifestazioni sportive” e che si dividono in impianti sportivi all’aperto e impianti sportivi al chiuso) che il medesimo sia dotato di defibrillatore automatico o a tecnologia più avanzata e che sia presente una persona debitamente formata all’utilizzo del dispositivo “durante le gare inserite nei calendari delle Federazioni sportive nazionali e delle discipline sportive associate, durante lo svolgimento di attività sportive con modalità competitive ed attività agonistiche di prestazione organizzate dagli enti di promozione sportiva nonché durante le gare organizzate da altre società dilettantistiche”.

 

Pertanto i sodalizi sportivi dovranno verificare, “prima dell’inizio delle gare e per il tramite di propri referenti all’uopo incaricati” la presenza del defibrillatore e della persona debitamente formata. In assenza non si potrà dare inizio alla gara.

 

Le disposizioni non si applicano “alle gare organizzate dalle associazioni e società sportive dilettantistiche … al di fuori degli impianti sportivi” e per le attività a basso rischio cardiocircolatorio di cui al citato decreto ministeriale (bocce – escluse bocce in volo – biliardo, golf, pesca sportiva di superficie, caccia sportiva, sport di tiro, giochi da tavolo e sport assimilabili) e all’allegato A al decreto, che si unisce alla presente circolare in allegato ribadendo il carattere non ufficiale della documentazione sulla base della quale sono state redatte le presenti note. Con ogni probabilità tale elenco deve intendersi  ricompresivo degli sport assimilabili indicati genericamente nel decreto Balduzzi.

 

Da tutto quanto sopra, sembra emergere che:

 

  1. nei centri e nelle palestre che non ospitano attività agonistiche non sussiste, almeno ai sensi della disciplina in esame, alcun obbligo di presenza del defibrillatore e del personale idoneo all’utilizzo
  2. analogamente tale obbligo non sussiste durante gli allenamenti o per le manifestazioni sportive che abbiano luogo all’aperto (mare, strade, boschi), in aree in parole povere che non possono essere classificate come impianti sportivi
  3. il defibrillatore non dovrà essere, necessariamente, di proprietà della associazione o società sportiva così come il personale idoneo all’utilizzo può essere anche di terzi ma resta a carico della sportiva l’onere di verificarne l’esistenza, la manutenzione e la presenza delle risorse umane necessarie prima dell’inizio di ogni gara
  4. l’unica conseguenza prevista per gli impianti sportivi non dotati di defibrillatore sarà la loro non idoneità ad ospitare manifestazioni agonistiche
  5. la responsabilità della società sportiva (si ritiene quella ospitante) sussisterà solo se darà comunque inizio alla gara in assenza della verifica della presenza del defibrillatore e del personale formato per il suo utilizzo.

 

Si ribadisce che le notizie sopra riportate sono state ricavate da testi del decreto apparsi su siti non ufficiali.

 

Le attività sportive esenti

 

 

 

 

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Manovra correttiva e jobs act: le novità per le collaborazioni degli enti

15/06/2017 di Guido Martinelli

Tra le modifiche introdotte nel D.L. 50/2017, ancora in fase di conversione, spicca la nuova disciplina “delle prestazioni occasionali. Libretto di famiglia. Contratto di prestazione occasionale”, come testualmente riportato dalla rubrica dell’articolo dedicato contenuto nel decreto.

Come è noto, la normativa introdotta sostituisce quella sulle prestazioni a carattere accessorio (i c.d. voucher) abrogata a seguito del programmato referendum.

Vengono previsti due percorsi diversi, a valere l’uno per le persone fisiche (il libretto di famiglia) e l’altro (il contratto di prestazione occasionale) “per gli altri utilizzatori”.

Non vi è dubbio, pertanto, che è al secondo a cui devono affidarsi gli enti, evidenziando come si continui ad accomunare la disciplina degli enti non commerciali alle società. Questo costituisce il limite più forte della riforma, o, meglio, della sua applicabilità agli enti. Infatti, l’utilizzo di queste prestazioni è legato ad una serie di adempimenti quali:

  1. la preventiva registrazione sulla piattaforma INPS sia delle associazioni che dei prestatori;
  2. la trasmissione almeno un’ora prima dell’effettuazione della prestazione dei dati anagrafici e identificativi del prestatore, del luogo, della data e dell’ora di inizio e di termine e dell’oggetto della prestazione;
  3. la comunicazione del compenso previsto per la prestazione;
  4. l’effettuazione del pagamento della prestazione all’INPS mediante F24. L’istituto provvederà poi a saldare il lavoratore.

In più per ciascun utilizzatore, con riferimento alla totalità dei prestatori, i compensi non potranno essere di importo superiore ai 5.000 euro.

È palese che tale disciplina sarà difficilmente compatibile con la struttura organizzativa delle associazioni e ben lontana dalla semplicità di utilizzo degli abrogati e rimpianti voucher per prestazione accessoria. In più si pone il problema se tale prestazione, ove eterodiretta, possa comunque sfociare in una declaratoria di rapporto di lavoro subordinato.

Ma vi è un secondo aspetto che appare, sotto il profilo interpretativo, ben più intrigante e gravido di conseguenze. Il legislatore le definisce “prestazioni di lavoro occasionali”. Il problema diventa quello di capire se differiscono da quelle (che non vengono espressamente abrogate) di cui all’articolo 67, primo comma, lett. L, del Tuir che disciplina “i redditi derivanti da attività di lavoro autonomo non esercitate abitualmente”. Queste ultime, come è noto, non prevedono formalità preventive ai fini della instaurazione del rapporto, la ritenuta d’acconto del 20% e contributi previdenziali per importi superiori ai 50.000 euro. L’esatto contrario dei primi che invece sono esentati da imposizione fiscale ma assoggettati a contribuzione.

Sarebbe un grosso problema se la nuova fattispecie fosse sostitutiva (rendendo veramente difficile per le associazioni retribuire prestazioni episodiche in loro favore), ma anche se fosse aggiuntiva il discrimine tra le due appare estremamente labile. Speriamo che qualcosa o qualcuno ci illumini in merito.

Una importante novità è stata introdotta anche dalla L. 81/2017 recante “norme per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, il c.d. jobs act del lavoro autonomo”.

L’articolo 15, comma 1, lett. a), infatti, introduce una modifica all’articolo 409, numero 3, c.p.c., introducendo la seguente specifica: “La collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo dalle parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”.

Questa novità ci consente di dare una lettura più chiara della previsione contenuta nel D.Lgs. 81/2015 laddove all’articolo 2 si prevede, a far data dal 1° gennaio 2016, l’applicazione della disciplina del rapporto di lavoro subordinato alle collaborazioni con prestazioni esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione siano organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi ed al luogo di lavoro. Quindi, in presenza di modalità di coordinamento “concordate” non scatterebbe la presunzione di applicazione delle norme di lavoro subordinato. Ove, invece, queste fossero “etero organizzate” ne deriverebbe l’applicazione della presunzione di applicabilità delle norme di lavoro subordinato.

Pertanto, nei casi in questione, sarà opportuno, mediante l’adozione di appositi contratti tra le parti, evidenziare la partecipazione del collaboratore alle indicazioni sul come dovrà essere svolta la prestazione.

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La riforma del terzo settore

18/05/2017 di Guido Martinelli

Il Consiglio dei Ministri del 12 maggio 2017 ha approvato la bozza di tre decreti, il codice del terzo settore, quello sulla impresa sociale e quello sul cinque per mille.

 

Viene così completata la manovra che aveva già visto entrare in vigore la disciplina sul nuovo servizio civile universale e l’approvazione dello statuto della fondazione Italia sociale. I testi approvati dovranno, ora, in 45 giorni, ricevere i pareri consultivi delle competenti commissioni parlamentari e della conferenza Stato – Regioni per poi tornare in consiglio dei ministri che potrà emendare i testi approvati alla luce del lavoro parlamentare e approvarli poi, in via definitiva, per la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.

 

Il giudizio finale, pertanto, potrà esserci solo al termine del descritto iter. Al momento non possiamo fare a meno di accodarci a chi aveva sollecitato un rinvio per una più attenta riflessione sui testi licenziati che, infatti, brillano più per quanto non dicono che per quanto affermano.

 

La considerazione più rilevante è che appare venuto meno quello che sembrava essere uno dei capisaldi della riforma, ossia il ricondurre ad una unitarietà di disciplina tutto il mondo del non profit.

 

Innanzi tutto chiariamo che lo sport non è stato compreso nella nuova disciplina. Si parla di un decreto apposito da emanare ma, quello che è certo, è che, al momento, le sportive “potranno” diventare anche associazioni di promozione sociale o imprese sociali, entrare nel mondo degli enti del terzo settore (sulla falsariga di quanto già previsto, appunto, per le associazioni e società dilettantistiche anche gli enti del terzo settore dovranno identificarsi dopo la riforma con la sigla ETS) ma non ne saranno obbligati e, al momento, va detto tale scelta non appare una iattura.

 

Il Codice del Terzo Settore, cioè una disciplina di 103 articoli che racchiude la parte civilistica, quella fiscale, il registro unico del terzo settore e l’introduzione di una serie di nuovi organi di controllo prevede l’abrogazione delle leggi. n. 266/1991 e 383/2000. Pertanto tutte le associazioni di volontariato e di promozione sociale dovranno necessariamente, per rimanere tali, uniformarsi alle disposizioni del nuovo decreto. Nulla viene detto, invece, per l’articolo 90 della L. 289/2002 che, come è noto, disciplina appunto le attività sportive dilettantistiche. Vengono abrogati gli articoli relativi alla disciplina delle onlus che, così, scompariranno come entità autonome all’interno del nostro ordinamento.

 

Viene abrogato l’articolo 9-bis della L. 66/1992. Questo significherà che gli enti del terzo settore non potranno più adottare le semplificazioni di cui alla L. 398/1991 ma saranno “costretti” ad un regime forfetario previsto dall’articolo 80 del decreto, sicuramente di minor favore rispetto a quello di cui perdono il diritto all’applicazione.

 

Agevolazioni che, invece, mantengono le sportive per le quali, si ripete, nulla viene previsto di modifica alla disciplina attualmente vigente. Tale assunto appare confermato dalla lettura del titolo sesto, articolo 45 e seguenti del codice, laddove si disciplina il nuovo registro unico nazionale del terzo settore. Anche in questo non viene fatto alcun accenno specifico alle associazioni e società sportive.

 

Infatti, l’articolo 4 comma 1 del codice in esame riporta che: Sono enti del Terzo settore le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le imprese sociali, incluse le cooperative sociali, le reti associative, le società di mutuo soccorso, ed ogni altro ente costituito in forma di associazione, riconosciuta o non riconosciuta, o di fondazione per il perseguimento, senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale mediante lo svolgimento di una o più attività di interesse generale in forma volontaria e di erogazione gratuita di denaro, beni o servizi, di mutualità o di produzione o scambio di beni o servizi, ed iscritto nel registro unico nazionale del Terzo settore”.

 

Ne deriva che gli enti senza scopo di lucro che non intendano entrare nel nuovo “status” di ETS potranno “non farlo” non iscrivendosi al registro unico nazionale del terzo settore e continuare così ad essere disciplinati con le disposizioni del primo libro del codice civile e, per la parte fiscale, con la disciplina generale degli enti non commerciali che non perdono di validità.

 

 Va infine ricordato, invece, che il decreto sul cinque per mille espressamente riporta tra i soggetti destinatari della opzione le “associazioni sportive dilettantistiche, riconosciute ai fini sportivi dal comitato olimpico nazionale italiano a norma di legge che svolgono una rilevante attività di interesse sociale”. Confermato che le società sportive di capitali continuino ad essere escluse da tale possibilità.

 

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Le prestazioni sportive sono collaborazioni a carattere intellettuale

11/05/2017 di Guido Martinelli

La circolare prot. 1/2016 dello scorso 1° dicembre dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, avente ad oggetto il corretto inquadramento delle prestazioni sportive dilettantistiche, merita qualche ulteriore considerazione nel tentativo di ricostruire una disciplina civilistica a queste prestazioni che hanno trovato una collocazione legislativa solo sotto il profilo fiscale.

 

L’inquadramento della fattispecie in esame deve avvenire partendo dalla norma fiscale (articolo 67, comma 1 Tuir) che colloca i compensi in esame tra i redditi diversi: “se non sono conseguiti nell’esercizio di arti e professioni …. né in relazione alla qualità di lavoro dipendente”.

 

Sul presupposto che non esistono all’interno del nostro codice civile, prestazioni di lavoro che non siano riconducibili alle prestazioni di lavoro subordinato o autonomo, non vi è dubbio che la configurazione in esame sia una fattispecie riconducibile a quelle indicate al n. 3, comma 1, articolo 409 c.p.c. ossia “..altri rapporti di collaborazione che si concretino in una prestazione di opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale anche se non a carattere subordinato”.

 

Nel momento in cui ammettiamo che i compensi sportivi possano essere riconducibili anche a una prestazione di lavoro, non può che derivarne giusto quanto affermato dal Ministero del Lavoro e della Previdenza Sociale con la circolare n. 4746 del 14 febbraio 2007, ovvero che devono ritenersi incluse nell’obbligo di comunicazione al centro unico per l’impiego la “prestazione sportiva, di cui all’articolo 3 della L. 89/1981, se svolta in forma di collaborazione coordinata e continuativa e le collaborazioni individuate e disciplinate dall’articolo 90 della L. 289/2002”. Tesi ribadita con l’interpello 22/2010 dove il Ministero afferma che “le associazioni e società sportive dilettantistiche che stipulano contratti di collaborazione di cui all’articolo 90 della L. 289/2002 sono comunque tenute all’obbligo di comunicazione preventiva al competente Centro per l’impiego”.

 

Affermata, quindi, l’obbligatorietà della comunicazione al centro per l’impiego (e conseguente iscrizione nel libro unico del lavoro) rimane da inquadrare la prestazione sotto altri profili civilistici, ad esempio quello del recesso.

 

Identificata nella figura del tecnico/istruttore quella maggiormente diffusa tra le prestazioni sportive, non appare dubbio che la stessa sia riconducibile alla fattispecie della prestazione d’opera intellettuale resa nei confronti di società sportiva dilettantistica disciplinata dall’articolo 2230 cod. civ. Detta disposizione stabilisce che “il contratto che ha per oggetto una prestazione d’opera intellettuale è regolato dalle norme seguenti …”.

 

Per quanto ora di nostro interesse si segnala la disposizione di cui all’articolo 2237 cod. civ. che consente al committente/cliente il diritto a “recedere dal contratto rimborsando al prestatore d’opera le spese sostenute e pagando il compenso e l’opera svolta” (vedi anche, per un allenatore di calcio dilettante, la Corte di Cassazione 17.01.1996 n. 354: “ … Trattandosi dunque di un contratto di locazione d’opera ex articolo 2237 cod. civ. la società non era tenuta al compenso per l’opera non prestata, indipendentemente dalla causa del recesso”).

 

L’articolo 2037 cod. civ. consente al committente di recedere dal contratto di prestazione d’opera intellettuale a prescindere dalla presenza di giusti e documentati motivi e, nel caso della loro ricorrenza a prescindere dall’esatta, tempestiva e rituale contestazione. Ciò in considerazione del preponderante rilievo che nel contrato in oggetto è assegnato all’intuitus fiduciae.

 

Se la relazione fiduciaria apprezzabile nel contratto d’opera intellettuale è prevalente rispetto al termine programmato per il perfezionamento dell’adempimento del contratto, non vi è alcun motivo per negare la recedibilità da tali contratti quantunque venga apposto un termine.

 

Nei contratti a esecuzione continuata, nei quali rientrano le prestazioni sportive, il potere di recesso non ha natura eccezionale assolvendo alla funzione di ius poenitendi qualora sia leso l’elemento fiduciario fondante il rapporto e sia venuto meno l’interesse alla continuazione

 

Tale amplissima facoltà ha come contropartita l’imposizione a carico di quest’ultimo dell’obbligo di rimborsare il prestatore delle spese sostenute e di corrispondergli il compenso per l’opera da lui svolta, mentre nessuna indennità è prevista (a differenza di quanto prescritto dall’articolo 2227 cod. civ.) per il mancato guadagno (Corte di Cassazione, sentenza 1472/2007).

 

Il recesso unilaterale del committente appartiene alla disciplina del contratto di prestazione d’opera intellettuale, non derogabile, né rinunciabile per facta concludentia, né “eliminabile” dalla scena del rapporto contrattuale per supposizioni o presunzioni. Inoltre, il recesso unilaterale non è escluso di per sé neanche dalla previsione di un termine di durata del rapporto dovendosi accertare in concreto, in base al contenuto del regolamento negoziale, se le parti hanno inteso escludere la possibilità di scioglimento del contratto prima della scadenza pattuita (vedi Corte di Cassazione 469/2016 in Cassazione n. 1215/2017).

 

La previsione del recesso unilaterale è l’affermazione della intangibilità del dato fiduciario e la sua inerenza al profilo causale del contratto di prestazione d’opera intellettuale. Nel contratto di prestazioni sportive è esaltata l’incidenza del requisito fiduciario afferente allo schema causale, rafforzate quindi le ragioni giustificatrici di conferma quanto agli effetti del recesso ex articolo 2237 cod. civ.

 

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Sponsorizzazioni sportive: sempre deducibili fino a 200.000 euro

12/04/2017 di Guido Martinelli

Il comma 8 dell’articolo 90 della L. 289/2002, qualifica, quale spesa pubblicitaria, le sponsorizzazioni poste in essere in favore di società o associazioni sportive dilettantistiche fino ad un ammontare complessivamente non superiore a 200.000 euro.

Fino ad oggi l’Agenzia delle Entrate ha sempre sostenuto, in sede di accertamento, che pur in presenza delle condizioni previste dalla norma, la qualificazione come spesa pubblicitaria della sponsorizzazione alle sportive, nel limite indicato, fosse da ritenersi tale solo in presenza dei requisiti di inerenza ed economicità previsti dal Tuir.

La Corte di Cassazione con due recenti decisioni (ordinanze 21 Marzo 2017 n. 7202 e 6 aprile 2017 n. 8981) osserva che: “quella sancita dall’articolo 90 comma 8 L. 289/2002 è una presunzione assoluta oltre che della natura di spesa pubblicitaria altresì di inerenza della spesa stessa fino alla soglia, normativamente prefissata, dell’importo di euro 200.000” e che: “ai fini dell’esclusione della presunzione di cui all’articolo 90 comma 8, L. 289/2002, non rileva l’iscrizione  o meno alle rispettive federazioni delle società beneficiarie del corrispettivo erogato con le sponsorizzazioni, ma, la destinazione del contributo ad associazioni e società sportive , che secondo la citata norma possono essere qualificate come dilettantistiche“.

La Suprema Corte afferma anche: “che la mancata iscrizione al suddetto registro comporta il difetto di prova a carico delle beneficiarie dello status di società o associazione sportiva dilettantistica  e quindi il difetto di prova in ordine ad uno dei requisiti in relazione ai quali il citato articolo 90, comma 8, legge 289/2002 consente, in via di presunzione legale assoluta di ritenere applicabile ai contributi erogati entro il limite  indicato, in favore i società o associazioni sportive dilettantistiche,  la qualificazione di spese di pubblicità“.

Ne consegue l’affermazione di un principio di diritto fondamentale per il mondo dello sport.

Se:

  • il soggetto sponsorizzato è una associazione o società sportiva dilettantistica regolarmente iscritta al registro Coni,
  • è rispettato il limite quantitativo di spesa di euro 200.000 complessivo da parte dello sponsor,
  • la sponsorizzazione mira a promuovere l’immagine e i prodotti dello sponsor,
  • il soggetto sponsorizzato ha effettivamente posto in essere una specifica attività promozionale (es. apposizione del marchio sulle divise, esibizione di striscioni e/o tabelloni sui campi di gioco),

non vi è dubbio che operi “una presunzione legale di inerenza/deducibilità delle spese de quibus fino alla concorrenza di euro 200.000”.

Irrilevante sul punto, prosegue la Cassazione “anche la presunta antieconomicità della spesa in esame in ragione della affermata irragionevole sproporzione tra l’entità della stessa rispetto al fatturato/utile di esercizio della società contribuente” proprio per la natura di presunzione assoluta della norma.

Il legislatore codicistico opera una distinzione tra le presunzioni legali distinguendole in relative, o iuris tantum, ed assolute, o iuris et de iure, che si risolve nella possibilità o meno di prova contraria. Nel caso di presunzione relativa, la parte contro cui opera la presunzione può offrire la prova contraria che invece è esclusa nella presunzione iuris et de iure.

Il distinguo prescinde dalla considerazione della posizione della parte che, dalla presunzione, è “sfavorita” e dall’effetto che la presunzione sortisce in favore di colui per il quale essa è ammessa.

La dottrina è ferma nel riconoscere alle presunzioni legali natura sostanziale con indiretta incidenza processuale. Quanto agli effetti, essi consistono nella predeterminazione e fissazione di fatti e accadimenti, che, se rilevati e provati, “vincolano” il Giudice a ritenere come vero il fatto presunto nonostante l’assenza di prova della parte onerata secondo l’ordinario criterio di distribuzione di cui all’articolo 2967 cod. civ.

Nel caso analizzato il fatto indice è la natura dilettantistica del soggetto beneficiario mentre il fatto presunto è la connotazione di spese di pubblicità delle erogazioni “di favore” per l’erogante. Il fatto presunto si collega, quanto agli effetti, al fatto indice dal momento che, pacifico il requisito per l’operatività del meccanismo presuntivo, ovvero il particolare status di società o associazione sportiva dilettantistica e l’ammontare nel tetto massimo previsto dalla norma, è esclusa la possibilità di provare che le erogazioni avessero titolo diverso rispetto a quello di natura pubblicitaria.

Pertanto, nell’ambito della fattispecie in esame, risultano irrilevanti anche l’eventuale squilibrio del sinallagma contrattuale fra le prestazioni oggetto dell’accordo (non vi è dubbio che nei limiti indicati può trovare spazio anche una forma di “mecenatismo”), la cd. “antieconomicità” nonché la non inerenza (ossia l’impossibilità, per la sponsorizzazione, stante le caratteristiche del prodotto pubblicizzato, di poter realizzare un incremento delle vendite).

Appare conseguente che, ove l’importo della sponsorizzazione superasse il tetto indicato, affinché si possa confermare la natura di spesa pubblicitaria sarà necessario verificare la sussistenza dei requisiti di economicità e inerenza fino ad oggi sempre affermati dalla prassi amministrativa e dalla giurisprudenza anche per importi inferiori ai 200.000 euro.

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Come inquadrare correttamente i collaboratori di una sportiva

29/03/2017 di Guido Martinelli

 

In un precedente contributo avevamo analizzato le problematiche relative all’inquadramento degli istruttori di discipline non più riconosciute come sportive ai sensi della delibera del Consiglio Nazionale del Coni, n. 1568 del 14 febbraio 2017.

 

La citata decisione della autorità di disciplina, regolazione e gestione delle attività sportive, ai sensi del D.Lgs. 242/1999, e il successivo D.L. 25/2017, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 17 marzo 2017, n. 64 e in vigore dal 17 marzo 2017, che prevede l’abrogazione dei voucher e dell’intera disciplina del lavoro accessorio, hanno ridotto al minimo per il mondo sportivo le scelte da fare per inquadrare correttamente i propri collaboratori retribuiti.

 

Ricordiamo che potranno essere riconosciuti i compensi sportivi (la disciplina di cui al combinato disposto di cui agli articolo 67, comma 1, lett. m), e 69, comma 2, Tuir), ai sensi della circolare 1/16 dell’ispettorato nazionale del lavoro, “solo al verificarsi delle seguenti condizioni:

  1. che l’associazione / società sportiva dilettantistica sia regolarmente riconosciuta dal Coni attraverso l’iscrizione nel registro delle società sportive;
  2. che il soggetto percettore svolga mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti e delle indicazioni fornite dalle singole federazioni, tra quelle necessarie per lo svolgimento delle attività sportivo – dilettantistiche così come regolamentate dalle singole Federazioni”.

 

Questo, evidentemente, esclude da questo ambito tutti i collaboratori addetti agli impianti sportivi con funzioni di custodia, pulizia, manutenzione, cassiere, videoterminaliste. In questi casi, e per queste tipologie di attività, allo stato dell’arte odierno, la scelta non potrà che essere quella di esternalizzare il servizio mediante appalti di servizi a ditte esterne o di assunzione diretta, con contratti di lavoro subordinato, da parte della sportiva gestore dell’impianto.

 

Abbiamo poi i c.d. gestori del posto di ristoro, collocato all’interno della sede sociale e dello shop in cui la sportiva effettua l’attività di merchandising di prodotti con il proprio marchio e di vendita di servizi accessori (accordatura racchette da tennis, vendita materiale sportivo, ecc.). Anche per loro appare pacifica l’impossibilità di inquadrarli con i compensi sportivi.

 

Nel passato questa tipologia di attività veniva spesso ricondotta al contratto di associazione in partecipazione con apporto di solo lavoro.

 

Sappiamo che in virtù di quanto previsto dall’articolo 53 del D.Lgs. 81/2015 non possono più essere stipulati nuovi contratti di associazione in partecipazione nei quali l’apporto dell’associato persona fisica consiste, in tutto o in parte, in una prestazione di lavoro. La violazione di questo divieto comporta la trasformazione del contratto in un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato. Rimane ammissibile l’associazione in partecipazione in cui l’associato sia una persona giuridica (ad es. una Snc che operi tramite propri soci). Ma, in tal caso, sarà necessario verificare se l’attività economica abbia un giro d’affari tale da giustificare tale soluzione.

 

Possibilità alternativa diventa il lavoro intermittente (articolo 13, D.Lgs. 81/2015). Tale tipologia contrattuale consente di chiamare al lavoro e retribuire il lavoratore unicamente nei giorni e nelle ore in cui si rende necessaria la prestazione. Ma anche tale scelta è vincolata a limiti di età e a procedure “burocratiche” difficilmente compatibili con le esigenze e le capacità organizzative di una sportiva.

 

Arriviamo agli assistenti bagnanti delle piscine e agli operatori delle attività ludiche inserite, ad esempio, nei centri estivi gestiti da una sportiva.

 

In questo caso, per alcuni momenti della loro attività (vedi ad esempio, per i bagnini, il momento in cui in piscina viene svolta attività agonistica o per gli animatori quando seguono una attività sportiva rientrante tra quelle previste nella delibera Coni citata in premessa) potrebbero vedersi legittimamente riconosciuti i compensi sportivi.

 

Ma per quei momenti in cui la vasca è riservata ad attività “non sportive” (ad esempio, ad oggi, l’idro-bike per gli assistenti bagnanti o quando gli operatori svolgono solo attività culturali o ricreative), come fare vista l’inapplicabilità in questi casi dei compensi sportivi?

 

Ove non ci trovassimo in situazioni per le quali è presente etero direzione (e, quindi, presunzione di applicazione del rapporto di lavoro subordinato) l’alternativa potrebbe essere la prestazione occasionale di cui all’articolo 67, comma 1, lett. l), Tuir.

 

Ma, va ricordato, questa attività per i primi cinquemila euro di compenso è priva di copertura previdenziale, principalmente assicurativa, e, per sua natura, non prevede la ripetitività della prestazione.

 

Un bel rebus che speriamo il legislatore ci aiuti a risolvere creando una nuova fattispecie legislativa applicabile a prestazioni estemporanee come queste che sostituisca i rimpianti voucher.

 

 

 

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