seguici su Facebook

L’opinione

Conseguenze per le società sportive della delibera CONI

21/03/2017 di Guido Martinelli

 

La delibera del Consiglio Nazionale del Coni n. 1568 del 14 febbraio 2017 non mancherà di produrre i suoi effetti sulle agevolazioni fiscali previste e fino ad oggi godute, dai sodalizi iscritti nel Registro Coni.

 

In particolare appaiono principalmente “sacrificate” le società di capitali e le cooperative sportive dilettantistiche. Tanto che, in alcuni casi, potrebbe essere rimessa in discussione la scelta operata di costituirsi in una delle forme previste dal quinto libro del codice civile. Esaminiamo, pertanto, quali saranno le novità per le sportive che avessero scelto questa forma costitutiva.

 

Ovviamente nessuna conseguenza ci sarà in capo a chi pratica esclusivamente attività sportive rientranti tra quelle indicate nell’elenco allegato alla delibera citata.

 

Il problema riguarderà, invece, quelle che svolgono solo attività non ricomprese (ad esempio discipline olistiche) o che svolgano sia le une che le altre.

 

Nel primo caso la fattispecie è semplice. La società sportiva dilettantistica che svolge solo attività non più rientrante tra quelle riconosciute come tali dal Coni, non potrà più avvalersi delle agevolazioni fiscali previste in favore delle associazioni (in virtù della equiparazione prevista dal primo comma dell’articolo 90 della L. 289/2002) e, pertanto, rimarrà un ente commerciale (essendo a tal fine irrilevante l’eventuale clausola di non lucratività) soggetto alla disciplina generale del reddito di impresa e dell’imposta sul valore aggiunto. Ovviamente perderà ogni diritto a riconoscere per tutti i collaboratori i compensi di cui all’articolo 67, primo comma, lettera m), del Tuir.

 

Analizziamo, invece, quali potrebbero essere le conseguenze per una società sportiva di capitali che pratichi sia attività comprese che non.

 

Diciamo subito che sicuramente perde, essendo l’impianto non più destinato esclusivamente ad attività sportiva, la possibilità di agevolazioni ai fini Imu e Tasi (ammesso che prima ne godesse). Analogamente perde la possibilità, per le attività non più sportive, della defiscalizzazione delle quote di frequenza (agevolazione che, invece, potrebbero mantenere le associazioni sportive che fossero anche iscritte ai registri delle associazioni di promozione sociale) e, ovviamente, non potranno più riconoscere compensi sportivi agli istruttori per quelle attività oggi escluse. La recente pubblicazione del D.L. 25/2017, nella Gazzetta Ufficiale del 17 marzo 2017, n. 64, e in vigore dalla stessa data, ha fatto perdere la possibilità di utilizzare le prestazioni a carattere accessorio. Questo comporterà, quindi, il rischio che si possa applicare a tali prestazioni non più sportive, la presunzione di cui al primo comma dell’articolo 2 laddove viene previsto che: “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro”.

 

Inoltre, la società di capitali o la cooperativa sportiva dilettantistica, essendo enti commerciali, comunque non avrebbero potuto godere della agevolazione prevista dal comma tre, lett. b), dell’articolo 143 del Tuir laddove viene previsto che non concorrono alla formazione del reddito i contributi per lo svolgimento convenzionato di attività aventi finalità sociali esercitate in conformità ai fini istituzionali degli enti stessi. Pertanto, in caso di gestioni di impianti sportivi pubblici da parte di società di capitali sportive, l’eventuale contributo posto a carico dell’amministrazione proprietaria sarà soggetto sia ad Iva che ad imposizione diretta.

 

Ma la realtà potrebbe essere più complessa. È infatti frequente, specialmente nelle palestre c.d. di cultura fisica gestite da società di capitali sportive, la prassi “commerciale” di far sottoscrivere abbonamenti a tempo che consentono di partecipare a tutte le attività svolte dalle società sportive, sia quelle che alla luce della delibera Coni rimangono tali che quelle che non ne sono state ricomprese.

 

In tal caso si teme che la commercialità delle attività non più ricomprese “necessariamente” attragga a sé anche le attività che astrattamente, essendo rimaste sportive, consentirebbero ancora di poter godere della agevolazione fiscale.

 

Pertanto, l’intero costo dell’abbonamento, ricomprendendo sia attività sportive che non, risulterebbe attratto nel reddito di impresa, essendo a questo punto irrilevante la circostanza che l’iscritto sia un tesserato alla Federazione o all’ente di promozione sportiva.

 

Ne deriva che, dopo aver per anni suggerito di preferire la costituzione in società di capitali, piuttosto che in associazione, in determinati casi potrebbe valere la pena tornare alle scelte iniziali.

 

E l’incredibile gioco dell’oca della riforma della legislazione sullo sport ci riporta alla casella di partenza.

 

Leggi tutto

L’inquadramento degli esodati dallo sport

07/03/2017 di Guido Martinelli

Con le delibere del Consiglio Nazionale del Coni, la n. 1566 del 20 dicembre 2016, avente ad oggetto il “Registro Nazionale delle Associazioni e Società Sportive Dilettantistiche-Elenco discipline sportive ammissibili”, e la successiva delibera integrativa e correttiva della precedente, la n. 1568 del 14 febbraio 2017, il Coni ha individuato 384 discipline sportive che, ad oggi, possono validamente ritenersi “attività sportive dilettantistiche riconosciute”.

Se, sotto un certo aspetto, come abbiamo già avuto modo di esprimere (“Considerazioni sul registro Coni e sugli statuti delle SSD” e “Discipline legittimanti l’iscrizione nel Registro Nazionale delle ASD”), il tenore di queste delibere ha messo un po’ d’ordine su quali siano i confini delle attività sportive riconosciute, le conseguenze legate al corretto inquadramento degli operatori sotto il profilo lavoristico incrementa i margini di incertezza, quasi come un puzzle, al quale, come è stato dichiarato in un recente convegno, manca sempre qualche tessera per poter essere completato.

Ci riferiamo, in particolare, alle prestazioni attinenti discipline non più ricomprese nell’elenco Coni.

In questo caso non potremmo più far rientrare l’attività svolta nell’ambito della “normativa speciale” volta a “favorire e ad agevolare la pratica dello sport dilettantistico” (vedi ispettorato nazionale del lavoro circolare 1/16 del 01.12.2016). Ciò per l’assenza dei due presupposti indicati dalla citata circolare per l’applicazione della disciplina dei c.d. compensi sportivi (ex articolo 67, comma 1, lett. m), Tuir:

  1. che l’associazione/società sportiva dilettantistica sia regolarmente riconosciuta dal Coni attraverso l’iscrizione nel registro delle società sportive;
  2. che il soggetto percettore svolga mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti e delle indicazioni fornite dalle singole federazioni, tra quelle necessarie per lo svolgimento delle attività sportivo – dilettantistiche così come regolamentate dalle singole Federazioni”.

Qui ci potremmo trovare di fronte a due situazioni diverse. La prima è quella in cui il sodalizio svolge esclusivamente attività non più riconosciuta come sportiva.

In tal caso, a far data dalla conclusione del corrente esercizio sociale, alle prestazioni svolte trova applicazione il primo comma dell’articolo 2 del D.Lgs. 81/2015 che, rubricando “collaborazioni organizzate dal committente” testualmente riporta che: “si applica la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro”.

L’altra ipotesi, probabilmente più diffusa, è invece quella del sodalizio che mantiene la sua natura sportiva dilettantistica in virtù della pratica di discipline riconosciute, ma che indice e organizza anche attività non ricomprese nell’elenco della delibera Coni dello scorso 14 febbraio.

In tal caso, anche per loro, scatta la presunzione dell’applicazione delle norme sul rapporto di lavoro subordinato in presenza di attività etero coordinata sopra descritta?

Si ricorda che il secondo comma del citato articolo 2 del D.Lgs. 81/2015 alla lettera desclude l’applicabilità di detta presunzione: “alle collaborazioni rese ai fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle Federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002 n. 289”.

Ritenuto che tale norma debba essere correttamente letta come riferita alle collaborazioni “rese ai fini istituzionali” in favore di società e associazioni sportive di cui all’articolo 90 L. 289/2002, non vi è dubbio che una società ad esempio di ginnastica artistica (e come tale e con dette finalità qualificata correttamente come sportiva dilettantistica) che abbia tra i propri fini istituzionali “anche” la pratica dello yoga (disciplina ad oggi non rientrante tra quelle riconosciute) possa, a questo punto, legittimamente inquadrare il proprio istruttore di tale disciplina come collaboratore coordinato e continuativo, ovviamente sussistendone i presupposti, senza cadere nella presunzione della applicabilità della disciplina del rapporto di lavoro subordinato.

Il problema che ne deriva, però, è che questa conclusione potrebbe essere una vittoria di Pirro. Infatti trattandosi comunque di istruttori di società e associazioni sportive dilettantistiche ci si troverà di fronte, comunque, all’obbligo di pagare i contributi alla gestione spettacolo ex ENPALS che, come è noto, sono dello stesso ammontare di quelli previsti per il rapporto di lavoro subordinato.

Ci troveremo, pertanto, nella singolare situazione che l’istruttore del corso di yoga indetto da una associazione culturale (in quanto ha perso in virtù della delibera Coni i connotati di sportiva) rischia l’applicazione delle norme sul rapporto di lavoro subordinato ma pagherà i contributi alla gestione ordinaria; lo stesso istruttore per la medesima attività, anche se inquadrato come collaboratore coordinato e continuativo, svolta in favore di una sportiva, li dovrà pagare alla gestione spettacolo.

È meglio risparmiarsi ogni commento.

 

 

Leggi tutto

I nuovi obblighi contabili 2017 per gli enti non commerciali

20/02/2017 di Guido Martinelli

In conseguenza delle modifiche apportate dalla legge di Bilancio 2017 sono rilevanti le novità che interessano la contabilità degli enti non commerciali ammessi al regime semplificato.

Sicuramente significativo è l’aumento di cui al comma 50, articolo 1 L. 232/2016 a 400.000 euro (rispetto ai precedenti 250.000) del limite di ricavi previsto per l’accesso al particolare regime forfettario della L. 398/1991.

È piuttosto probabile che, a seguito di questo innalzamento (che fa coincidere il limite di ricavi con quello previsto dall’articolo 18 del D.P.R. 600/1973 per l’accesso alla contabilità semplificata in caso di attività aventi ad oggetto la prestazioni di servizi) la stragrande maggioranza degli “aventi diritto” opti da quest’anno per il regime forfettario.

È indubbia, infatti, la convenienza di questo regime, sia per quanto riguarda il risparmio di imposta (lres, Irap e Iva sono calcolate a forfait sui ricavi) sia per quanto riguarda l’alleggerimento degli oneri contabili (è previsto solo l’obbligo di effettuare un’unica indicazione cumulativa mensile per le operazioni effettuate sul registro conforme a quello approvato con D.M. 11 febbraio 1997, opportunamente integrato).

Non tutti gli enti non commerciali che nell’ambito dell’attività d’impresa non superano il limite previsto per la contabilità semplificata possono tuttavia esercitare l’opzione per l’applicazione della L. 398/1991 che, lo ricordiamo, è riservata agli enti “di tipo associativo”.

Chi non ha la forma giuridica di associazione (es. fondazioni, comitati, enti religiosi non associativi ecc.) deve necessariamente fare riferimento, per le attività rilevanti ai fini fiscali, esclusivamente alle regole ordinarie previste per la contabilità degli enti non commerciali e, segnatamente, all’articolo 20 del D.P.R. 600/1973 che, a sua volta, rinvia all’articolo 18 dello stesso decreto con riferimento alla descrizione delle regole contabili per le “imprese in contabilità semplificata”.

Di conseguenza anche gli enti non commerciali che, per gestire l’attività commerciale, adottano il regime di contabilità semplificata, a decorrere dal 2017 sono soggetti alle nuove regole disposte dall’articolo 1, comma 22, della L. 232/2016 (che ha modificato il citato articolo 18, D.P.R. 600/1973).

A partire da quest’anno, quindi, anche gli enti non commerciali, per gestire l’attività d’impresa in contabilità semplificata devono obbligatoriamente seguire il criterio di cassa, non essendo più possibile effettuare le registrazioni per competenza. Tralasciando le considerazioni operative legate al passaggio dal vecchio al nuovo regime, che riguardano la generalità dei soggetti in contabilità semplificata, ci occupiamo in questa sede dei problemi specifici che interessano gli enti non commerciali in forza delle particolari disposizioni normative che li riguardano.

Si fa riferimento, in particolare, agli articoli del Tuir modificati dal D.Lgs. 460/1997 che hanno imposto di effettuare una netta separazione tra attività commerciale e attività istituzionale degli enti non commerciali, prevendendo l’obbligo di ripartire i costi promiscui secondo un preciso rapporto, previsto per legge.

La presenza di due ambiti contabili diversi presuppone necessariamente che i principi di contabilizzazione siano gli stessi pena l’impossibilità di predisporre il bilancio complessivo che illustri sia l’attività istituzionale che quella commerciale dell’ente.

E che dire della percentuale di scorporo dei costi promiscui calcolata, secondo il disposto del comma 4, articolo 144 Tuir, ovvero in base al rapporto tra ricavi commerciali e ricavi complessivi (commerciali + istituzionali)?

Va da sé che gli elementi che compongono il rapporto devono necessariamente essere commensurabili se no si corre il rischio che l’indicatore non dia un’informazione corretta. È inoltre necessario verificare la prevalenza, anche quantitativa, dell’attività istituzionale rispetto a quella commerciale per il rispetto del vincolo imposto dall’articolo 149 del Tuir: anche sotto questo profilo, per consentire un’applicazione corretta del principio sotteso alla norma citata, le regole di registrazione devono essere le stesse per entrambi i regimi.

Per tutti questi motivi è quindi evidente che, imporre dal 2017 il regime di cassa per l’attività commerciale, porta necessariamente la conseguenza che anche l’attività istituzionale debba essere gestita con criteri analoghi a quelli previsti per la gestione d’impresa.

Quindi delle due l’una: o l’ente adottava già in passato il regime di cassa anche per le registrazioni relative all’attività istituzionale (ipotesi verosimile nelle realtà di minori dimensioni e poco strutturate dal punto di vista amministrativo) oppure, nei casi in cui sia stato in precedenza seguito il regime di competenza sia per l’attività commerciale che per quella istituzionale, non resterà che esercitare l’opzione prevista dal comma 8 dell’articolo 18 che consente l’applicazione per il regime ordinario.

Non si ritiene infatti, in questo caso, che l’opzione per il criterio della “registrazione” di cui al comma 4 dell’articolo 18, D.P.R. 600/1973 possa dirsi risolutiva in questa fattispecie (rimane infatti il problema di comparabilità con la gestione istituzionale).

Un ultimo aspetto da considerare è il coordinamento delle nuove regole con il disposto dell’articolo 145 del Tuir che consente agli enti ammessi alla contabilità semplificate, di determinare il reddito applicando ai ricavi determinati coefficienti.

A questo proposito dovrà essere chiarito se anche per la determinazione del reddito imponibile Ires applicando i coefficienti forfettari si dovrà tenere conto, a partire da quest’anno, del nuovo regime di cassa.

Leggi tutto

Ancora sul lavoro sportivo dilettantistico

09/01/2017 di Guido Martinelli

Il comunicato del consiglio nazionale del Coni, svoltosi lo scorso 20 dicembre, indica, tra le delibere approvate all’unanimità quella relativa al: “Registro Nazionale delle Associazioni e Società Sportive Dilettantistiche-Elenco discipline sportive ammissibili”.

 

Dietro questa apparente “formalità” si nasconde, invece, una rivoluzione epocale per chi segue gli aspetti giuridico – amministrativi legati allo sport. Infatti per la prima volta il Coni, pur continuando a non codificare una definizione di sport, individua 396 discipline che, ad oggi, possono ritenersi attività sportive e prevede che possano essere iscritte al registro Coni (con conseguente applicazione delle agevolazioni fiscali e previdenziali ad esso connesse) soltanto quelle associazioni o società sportive dilettantistiche che dichiarano di svolgere quelle specialità inserite nell’elenco.

 

Se, ad onor del vero, vi compaiono attività di scarsa notorietà presso il pubblico (vedi ad esempio il korfball, il lacrosse o il netball) si deve sottolineare l’assenza di altre attività molto praticate nei centri sportivi quale yogacrossfit o pilates.

 

Questo ci porta ad una immediata conseguenza. Come è noto, il neocostituito ispettorato nazionale del lavoro ha emanato, con propria lettera circolare del primo dicembre, protocollo 1/2016, le proprie indicazioni operative sul trattamento, si fini previdenziali, dei compensi erogati dalle società e associazioni sportive dilettantistiche. All’interno testualmente riporta: “… l’applicazione della norma agevolativa che riconduce tra i redditi diversi le indennità erogate ai collaboratori è consentita solo al verificarsi delle seguenti condizioni: 1 – che l’associazione/società sportiva dilettantistica sia regolarmente riconosciuta dal Coni attraverso l’iscrizione nel registro delle società sportive …”.

 

Ne consegue che la pratica di una attività non rientrante tra quelle approvate dal Coni, non consentendo l’iscrizione al registro, inibisce anche dalla possibilità di riconoscere a chi la pratica i compensi previsti dall’articolo 67, primo comma, lett. m, del Tuir.

 

Delimitato, pertanto, il campo di applicazione della disciplina agevolativa sui compensi, non possiamo non evidenziare anche che numerosi rimangono gli interrogativi ai quali la circolare dell’ispettorato non offre risposta.

 

La disciplina in esame, ad esempio, specifica che i compensi sportivi sono da considerarsi redditi diversi se non costituiscono redditi da lavoro subordinato o di esercizio di arti e professioni. Pertanto, in presenza di prestazioni caratterizzate da etero-direzione, in sede di accertamento il rapporto sarà considerato di lavoro subordinato o dovrà/potrà essere correttamente inquadrato come prestazione sportiva dilettantistica? Pertanto, l’inquadramento tra i redditi diversi della prestazione potrà avvenire con il carattere della norma speciale, come tale opponibile al classico binomio del lavoro autonomo o subordinato oppure come norma di chiusura, residuale, nei casi in cui non fossero applicabili i criteri indicati?

 

La circolare sembra uniformare nel trattamento sia l’esercizio diretto di sportiva dilettantistica che la collaborazione coordinata continuativa di carattere amministrativo – gestionale. Se così fosse, come si concilia che per quest’ultima viene precisato di “natura non professionale” nell’articolo 67 del Tuir mentre per la prima fattispecie no?

 

Un istruttore che non abbia altra diversa attività professionale fuori dal mondo dello sport e che svolga la propria prestazione nei confronti di una molteplicità di centri sportivi sarà considerato un esercente arti o professioni (e pertanto escluso dal campo di applicazione dell’articolo 67) o potrà essere pagato con i compensi sportivi?

 

L’istruttore/personal trainer che svolge la propria attività professionale sia in favore di privati (per la cui attività ha aperto partita Iva) che in favore di ASD/SSD, potrà da queste ultime essere pagato con i compensi sportivi?

 

L’assistente bagnante, in quei momenti in cui in vasca non si svolgano attività sportive riconosciute (nuoto libero, attività per neonati, idro-bike, ginnastica in acqua, ecc.) potrà essere retribuito con i compensi sportivi?

 

L’istruttore (ad esempio di nuoto) che d’estate lavora negli alberghi, regolarmente assunto o con partita Iva, in inverno potrà fare attività per un’ASD/SSD ed essere pagato con i compensi sportivi?

 

Le collaborazioni amministrativo-gestionali di carattere “non continuativo” – sempre non professionali – possono essere pagate con i compensi sportivi?

 

Le prestazioni in questione devono ritenersi assoggettate all’obbligo di comunicazione al Centro per l’Impiego e di iscrizione nel LUL se svolte in forma coordinata e continuativa (anche in considerazione dell’articolo 2 del D.Lgs. 81/2015)?

 

Come si vede permangono ancora dubbi che si spera possano presto essere risolti da un nuovo e necessario documento di prassi amministrativa.

 

Leggi tutto

Indicazioni operative dell’ispettorato nazionale del lavoro in materia di prestazioni sportive dilettantistiche

05/12/2016 di Guido Martinelli

Il neocostituito Ispettorato Nazionale del Lavoro ha emanato, con propria lettera circolare del primo dicembre, prot. 1/2016, le proprie indicazioni operative sul trattamento, sia ai fini previdenziali che assicurativi, dei compensi erogati dalle società e associazioni sportive dilettantistiche, sia per quanto riguarda i soggetti che svolgono “esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche” che per coloro che svolgono “collaborazioni coordinate e continuative a carattere amministrativo – gestionale” così come queste figure sono disciplinate, ai fini fiscali, dal combinato disposto di cui agli artt. 67 primo comma lett. m) e 69 secondo comma del Tuir.

 

La presa di posizione appare quanto mai opportuna alla luce degli ondivaghi orientamenti fino ad oggi ricavabili dalla giurisprudenza in materia e i notevoli contenziosi che ne sono derivati e nasce nel quadro della collaborazione sorta all’interno dei tavoli tecnici Coni – Agenzia delle entrate – Inps – Ministero del Lavoro.

 

Il punto di partenza nasce dal mancato inquadramento, sotto il profilo del diritto del lavoro, dell’attività posta in essere dai soggetti che prestano la propria opera, a carattere oneroso, in favore di società e associazioni sportive dilettantistiche.

 

Era stata costretta la stessa Suprema Corte di Cassazione a scrivere che: “« … va aggiunto che la figura del lavoratore sportivo dilettante non forma oggetto di una disciplina giuridica compiuta, né nell’ordinamento sportivo, né in quello nazionale. Manca, infatti, uno specifico inquadramento sotto il profilo del diritto del lavoro mentre si rinviene la regolazione di taluni aspetti specifici, soprattutto nel settore del diritto tributario ….» (C. Cass. sent. 602/2014).

 

Il problema, rimasto insoluto anche dopo l’equivoca formulazione dell’art. 2 secondo comma lett. d del decreto legislativo 81/2015, era se l’inquadramento fiscale dei compensi sportivi (che per la qualificazione come reddito diverso producevano come conseguenza l’assenza di copertura previdenziale e assicurativa) fosse applicabile o meno anche a prestazioni che avessero come “causa” una prestazione di lavoro oppure se fosse una fattispecie, quella dei compensi sportivi, applicabile solo a prestazioni a carattere associativo o, comunque, non a carattere lavorativo.

 

La Giurisprudenza si era indirizzata, in questi ultimi anni, anche se non in maniera univoca (ex pluris vedi C. Cass. 31840/2014) nel tentativo di legittimare e tipizzare una fattispecie di “lavoro sportivo dilettantistico” che prescindesse dalla indagine sulla natura autonoma o subordinata del rapporto (“..la finalità perseguita dal legislatore è quella di realizzare un regime di favore a vantaggio delle associazioni sportive dilettantistiche esentando dal pagamento dell’imposta (e della contribuzione) quanto queste corrispondano in forme di rimborsi forfettari o di compensi non solo agli atleti ma anche a tutti coloro che collaborino con mansioni tecniche o anche gestionali, al funzionamento della struttura riconosciuta dal Coni. Vi sottende, ovviamente, la necessità di incentivare questo tipo di attività e di alleggerirne i costi di gestione, sul presupposto  della oggettiva valenza della funzione, anche educativa che consegue all’esercizio di attività sportive non professionistiche ..“. C. App. Firenze n. 683/14; “..  Non sono condivisibili le conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado nel delineare un nesso tra la natura del rapporto di lavoro e la qualifica di «esercente attività sportiva dilettantistica» che ben può caratterizzare qualsiasi tipo di rapporto di lavoro, rendendo pertanto fruibili i relativi sgravi fiscali e contributivi a prescindere dalla natura autonoma o subordinata dello stesso… “ C. App. Bologna sent. N. 250/16) che risulta oggi confermata dalla presa di posizione assunta dal servizio ispettivo con la circolare in commento.

 

Inserendosi in un filone che aveva già visto, in senso conforme, la circolare del Ministero del Lavoro del 21.02.2014 prot. N. 4036 (“ … farsi promotore d’intesa con l’INPS di iniziative di carattere normativo volte ad una graduale introduzione di forme di tutela previdenziale a favore dei soggetti che nell’ambito delle associazioni e società sportive dilettantistiche… svolgono attività sportive dilettantistica nonché attività amministrativo-gestionale non professionale … ”) e del successivo interpello n. 6/2016, viene specificata la natura di “normativa speciale” applicabile al caso di specie volta a “favorire e ad agevolare la pratica dello sport dilettantistico”.

 

Pertanto, procede il documento in commento, “la corretta individuazione dei soggetti eroganti (ASD, SSD) attraverso il registro delle società sportive costituisce la condizione principale per l’applicazione del regime agevolativo” e dei soggetti beneficiari individuando come tali coloro i quali svolgano le attività necessarie per lo svolgimento dell’attività. In tale direzione per poterne individuare le figure la circolare ricorda: “ … a solo titolo di esempio è possibile citare: gli istruttori, gli addetti al salvamento delle piscine, i collaboratori amministrativi e ogni altra figura espressamente prevista dai regolamenti federali per lo svolgimento dell’attività” .

 

         Opportunamente la circolare chiarisce che il requisito della professionalità, intendendosi come tale la partecipazione a corsi di formazione organizzati dalla propria Federazione di appartenenza, “non rappresenta in alcun modo un requisito, da solo sufficiente, per ricondurre tali compensi tra i redditi di lavoro autonomo, non essendo tale qualifica requisito di professionalità ma unicamente requisito richiesto dalla Federazione di appartenenza per garantire un corretto insegnamento della pratica sportiva”. D’altro canto, su questo specifico punto, occorre ricordare che lo stesso art. 67 primo comma lett. m) del tuir prevede come requisito la “non professionalità” solo per le collaborazioni coordinate e continuative di natura amministrativa – gestionale (e per quelle, estranee al tema in esame in favore di cori, bande e filodrammatiche) e non, anche, per l’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche. Viene precisato anche: “che la stessa regolamentazione prevista dal decreto legislativo n. 15/2016 in attuazione della direttiva 2013/55/UE del Parlamento europeo, relativa al riconoscimento delle qualifiche professionali che attribuisce al Coni la competenza per il riconoscimento delle professioni di maestro di scherma, allenatore, preparatore atletico, direttore tecnico sportivo, dirigente sportivo e ufficiale di gara deve essere intesa come uno strumento volto a fissare i criteri che consentono anche a soggetti stranieri la possibilità di svolgere in Italia le attività sopra elencate”.

 

         Va anche detto che il termine “compenso”, inserito dal legislatore fiscale nella norma indicata, innovando e integrando la precedente disciplina che parlava solo di indennità di trasferta e di rimborso forfettario di spesa, sembrava  proprio andare nella direzione di disciplinare, sotto il profilo fiscale, il riconoscimento economico per una prestazione a carattere corrispettivo.  

 

In questo quadro viene precisato, quindi, che l’applicazione della norma agevolativa che riconduce tra i redditi diversi le indennità erogate ai collaboratori è consentita, senza ulteriori considerazioni legate alla natura autonoma o subordinata della stessa, sulla base di quanto ricordato dalla giurisprudenza sopra indicata, al verificarsi delle seguenti condizioni:

 

“1.     Che l’associazione / società sportiva dilettantistica sia regolarmente riconosciuta dal Coni attraverso l’iscrizione nel registro delle società sportive;

2.      Che il soggetto percettore svolga mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti e delle indicazioni fornite dalle singole federazioni, tra quelle necessarie per lo svolgimento delle attività sportivo – dilettantistiche così come regolamentate dalle singole Federazioni”

 

         Sulla base di tale previsione acquista anche rilevanza il tesseramento della persona fisica alla Federazione che ne testimonia il riconoscimento della attività.

 

Se il perimetro della chiarezza si è definito, rimane la consapevolezza di alcuni punti ancora possibile fonte di contenzioso.

 

         Il primo è il riferimento, espressamente indicato nella circolare, degli addetti al salvamento. Se, in presenza di attività agonistiche o di corsi propedeutici in vasca, appare compatibile e coerente la ricomprensione anche di queste figure nell’ambito di quelle “sportive”, meno condivisibile apparirebbe la ricomprensione in tale ambito per le attività svolte dagli addetti al salvamento negli spazi c.d. di “nuoto libero” o per tutte quelle attività non strettamente sportive che possono essere poste in essere in vasca (vedi attività per neonati o similari).

 

         Si pone, poi, il problema di quelle discipline riconosciute solo dagli enti di promozione sportiva e non da una Federazione o da una disciplina sportiva associata aderente Coni (vedi, ad esempio, pilates, yoga, ecc).  Infatti, mentre non appare dubbio alcuno che il compenso sportivo possa essere erogato per la pratica svolta nell’ambito degli enti di promozione di discipline riconosciute come tali da Federazioni, dubbia rimane per quelle attività, tipo quelle in precedenza citate, che sono svolte dagli enti ma che non hanno, come tipologia di esercizio, un analogo riconoscimento all’interno di una Federazione o Disciplina sportiva associata.

 

         Non possiamo fare a meno di ricordare come lo statuto del Coni, mentre per le Federazioni e Discipline sportive associate parla di “attività sportiva” (art. 20 e 24 dello statuto Coni), per gli enti di promozione sportiva definisce le attività come: “fisico – sportive con finalità ricreative e formative” (art. 26 primo comma statuto Coni).

 

         In un’ottica di limitare il recinto della applicabilità della disciplina agevolativa questa potrebbe essere una possibile spiegazione al preciso contenuto della circolare laddove viene previsto che: “sulla base di questi chiarimenti normativi e di prassi è possibile avere un quadro di riferimento per definire le prestazioni che rientrano nell’art. 67 del Tuir ma è necessario, in sede di accesso, verificare, sulla base delle indicazioni fornite dalle singole Federazioni che attuano il riconoscimento della ASD/SSD quali sono le attività necessarie per garantire l’avviamento e la promozione dello sport e le qualifiche dei soggetti che devono attuare tali attività”.

 

Questa presa di posizione sicuramente appare un importante contributo di chiarezza ad una disciplina che suscitava molte incertezze e che aveva portato a numerosi contenziosi tuttora in corso. Appare altrettanto vero che, come tale, non può che essere ritenuta insufficiente, anche perché costruita solo sotto il profilo amministrativo e pertanto, si auspica che sia solo un punto di partenza per un totale riesame legislativo della fattispecie del lavoro sportivo dilettantistico

Leggi tutto

Il lavoro dilettantistico: una storia senza fine

06/10/2016 di Guido Martinelli

Due recenti sentenze, di segno contrario l’una all’altra, ripropongono in maniera oserei dire “drammatica” la necessità di porre un punto fermo alla disciplina del “lavoro sportivo dilettantistico”.

 

Con questo termine ci riferiamo a quei soggetti che prestano la loro opera, in via principale anche se non esclusiva, in settori sportivi non professionistici e che da questa attività riscuotono la parte principale dei loro proventi. Il problema è presto sintetizzato. Il legislatore tributario ha inquadrato tra i redditi diversi il ricavo da tali attività. Ma questo inquadramento fiscale produce, come conseguenza diretta, che su tale emolumento non siano applicabili ritenute previdenziali e assistenziali, previste solo per i redditi da lavoro.

 

La prima decisione in commento è la sentenza n. 2118 del 11.05.2016 emessa dalla sezione lavoro della Corte d’Appello di Roma. Il fatto è quello comune alle altre decisioni in questa materia. Accertamento Inps verso una associazione sportiva che gestiva un centro di fitness a seguito del quale venivano recuperati i contributi dovuti alla gestione ex Enpals per sette istruttori, ai quali fino a quel momento erano stati riconosciuti i compensi sportivi di cui all’articolo 67, comma 1, lettera m), del Tuir e, come meglio sopra precisato, in quanto tali non soggetti a contribuzione previdenziale.

 

Facendo riferimento al decreto ministeriale 15.03.2005 che ha adeguato le categorie dei lavoratori assicurati obbligatoriamente presso l’Enpals e, più in particolare, al punto 20 che prevede “impiegati, operai, istruttori e addetti agli impianti e ai circoli sportivi di qualsiasi genere, palestre …..”, il giudicante di appello afferma: “dal semplice tenore letterale della espressione normativa di cui al n. 20 emerge l’obbligo contributivo a carico dell’appellante nei riguardi degli istruttori di attività sportive a prescindere dalla natura giuridica (subordinata, parasubordinata o autonoma) del rapporto di lavoro ed essendosi peraltro la stessa appellante qualificata associazione sportiva”.

 

La Corte non ritiene, inoltre, comunque applicabile la disciplina fiscale (e la conseguente non debenza previdenziale) dei compensi sportivi in quanto sussisterebbe a carico dei lavoratori sia il requisito della professionalità che della: “abitualità anche se non esclusività della loro prestazione”.

 

Non si può fare a meno di rilevare come, invece, la sezione lavoro della Corte d’Appello di Bologna, poche settimane dopo (sentenza n. 250 del 07.06.2016) arriva ad una conclusione diametralmente opposta.

 

Medesima fattispecie concreta. In questo caso, dopo aver analizzato la disciplina fiscale e l’evoluzione legislativa della figura in esame, ritenuta la natura di società sportiva dilettantistica del soggetto presunto datore di lavoro e la riconducibilità della prestazione resa dagli istruttori all’esercizio diretto di attività sportiva dilettantistica, per come interpretato autenticamente dal legislatore con l’articolo 35, comma 5, del D.L. 207/2008 convertito con la L. 14/2009, la sentenza stabilisce che “il legislatore ha così chiarito che anche i compensi per le attività di formazione, istruzione, ed assistenza ad attività sportiva beneficiano dell’esenzione fiscale contributiva dovendosi intendere per attività sportiva dilettantistica il mero far fare sport senza che sussista un evento ulteriore a cui finalizzare tale attività” e così conclude riformando la sentenza di primo grado che aveva invece accolto la tesi dell’istituto previdenziale: “non sono condivisibili le conclusioni a cui è pervenuto il giudice di primo grado nel delineare un nesso tra la natura del rapporto di lavoro e la qualifica di esercente attività sportiva dilettantistica che ben può caratterizzare qualsiasi rapporto di lavoro rendendo pertanto fruibili i relativi sgravi fiscali e contributivi a prescindere dalla natura autonoma o subordinata dello stesso”.

 

Il foro bolognese mantiene il suo atteggiamento di favore anche con la decisione della sezione lavoro del Tribunale (sentenza n. 558 del 23.09.2016), sempre sui medesimi presupposti di fatto: “… tutte le collaborazioni svolte nell’ambito sportivo dilettantistico seguono il regime agevolato a prescindere dall’abitualità e dalla continuità della prestazione … con la conseguenza che non essendo il compenso imponibile non potranno su di esso calcolarsi neppure oneri previdenziali …”.

 

Facile rilevare come ci si trovi di fronte a due opposte chiavi di lettura della medesima disciplina. Un rilievo conclusivo evidenzia come nessuno dei collegi chiamati a decidere su detta materia abbia preso in esame il dettato di cui all’articolo 38 della nostra Costituzione:

 

“2. I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

….

 

  1. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato”

 

Un intervento del legislatore o una definitiva presa di posizione della Cassazione, in un senso o nell’altro, si impone.

 

Leggi tutto

Il massaggio è sport

30/08/2016 di Guido Martinelli

La sezione quinta del Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, ha pronunciato, lo scorso 7 luglio, una sentenza (la numero 03378/2016) le cui conseguenze possono essere di interesse anche per le associazioni e società sportive dilettantistiche.

 

Il tema ruota attorno alla qualifica professionale necessaria per svolgere attività di massaggio. Il Comune di Sanremo aveva disposto la chiusura temporanea di un centro benessere sul presupposto che svolgesse unaattività di estetica: “in assenza di titolo autorizzativo e in assenza di direttore tecnico qualificato”.

 

Il legale rappresentante impugnava il provvedimento deducendo: “la non riconducibilità dell’attività concretamente svolta, consistente nella pratica di massaggi Tuina, a quella di estetista”.

 

La sentenza del Tribunale amministrativo regionale, oggetto di esame in appello, aveva sostenuto che: “tutte lepratiche manipolatorie rientranti nella categoria delle discipline bio – naturali (tra cui lo shiatsu e il tuina)” siano riconducibili all’attività di estetista.

 

Il presupposto giuridico è dato dall’articolo 1, comma 1, della L. 1/1990 avente ad oggetto la disciplina dell’attività di estetista. La norma indicata, infatti, fa rientrare tra le attività oggetto di esclusiva: “tutte le prestazioni ed i trattamenti eseguiti sulla superficie del corpo umano il cui scopo esclusivo o prevalente sia quello di mantenerlo in perfette condizioni, di migliorarne e proteggerne l’aspetto estetico, modificandolo attraverso l’eliminazione e l’attenuazione degli inestetismi presenti”.

 

La motivazione si basa sulla interpretazione del citato disposto normativo. Secondo il Giudicante di primo grado esiste una finalizzazione alternativa dell’attività di estetista: la prima legata al mantenimento del corpo umano in perfette condizioni e l’altra di migliorarne e proteggerne l’aspetto estetico mediante l’eliminazione o l’attenuazione degli inestetismi esistenti.

 

Il Consiglio di Stato, con il provvedimento in esame, respinge questa tesi ritenendo che questa alternativa finalistica dell’attività di estetista: “non appare conforme al modello legale della professione il quale non contempla alcuna alternatività”. Pertanto, la corretta lettura della norma che disciplina l’attività di estetista deve portare a concludere che, indistintamente, tutti i trattamenti riservati all’attività di soggetti in possesso di detta qualifica siano diretti allo scopo unitario di eliminare o ridurre gli inestetismi presenti nel corpo umano.

 

Ma “questa essenziale finalità appare estranea alle manipolazioni rientranti tra quelle proprie dei massaggi Tuina che non perseguono quell’obiettivo”. Di conseguenza l’attività svolta dalla ricorrente appare estranea a quella riservata dalla L. 1/1990 alle estetiste.

 

Pertanto, il Giudicante di secondo grado ha, di fatto, legittimato l’esercizio di attività di massaggio “non estetico” al di fuori di ogni autorizzazione amministrativa e/o di qualificazione degli operatori.

Sotto tale profilo, pertanto, dovrebbe andare necessariamente confermata la nostra tesi (si veda palestre-e-la-gestione-di-saune-e-solarium) secondo la quale non appare condivisibile la giurisprudenza che impone la presenza dell’estetista in tutti quei centri sportivi che utilizzano anche saune e solarium.

 

 

Di conseguenza, lo svolgimento, da parte di una associazione o società sportiva dilettantistica, nell’ambito del proprio centro, di attività di massaggi o l’utilizzo di saune che non abbiano finalità estetiche, alla luce della decisione in commento, apparirebbe libero da vincoli amministrativi o di qualificazione del personale.

 

Ma, nel caso in esame, è presente un altro aspetto curioso che apparentemente è rimasto estraneo agli atti processuali.

 

La Federazione Italiana Wushu Kung Fu (in sigla F.I.Wu.K.) regolarmente riconosciuta dal Coni come disciplina associata, prevede, nel suo statuto all’articolo 3 comma 2, tra le attività dalla medesima disciplinate,“le arti marziali di origine cinese quali …… il Wushu KungFu tradizionale (in tutti gli stili interni ed esterni tra cui … il Tuina, …)”.

 

Senza volere ora necessariamente capire come possa un massaggio essere considerato un’arte marziale, comunque di carattere o di origine sportiva stante l’avvenuto riconoscimento da parte del Coni, resta la possibilità che non solo l’operatore di massaggio Tuina non debba avere abilitazioni particolari, alla luce della commentata sentenza del Consiglio di Stato, ma che, inoltre, egli possa essere “compensato” con la disciplina di maggior favore di cui all’articolo 67, comma 1, lettera m), del Tuir.

 

Consentitemi una considerazione finale di carattere personale. Stante la circostanza che una attività riconosciuta dal Consiglio di Stato come “massaggio” sia poi riconosciuta dal Coni come sportiva mi induce a ritenere che diventa sempre più urgente una definizione legislativa di cosa si debba intendere per sport.

 

Leggi tutto

Ancora sul diritto di voto ai sedicenni nelle associazioni

14/07/2016 di Guido Martinelli

Lo statuto, di recente entrato in vigore, della U.I.S.P., uno tra i più importanti enti di promozione sportiva riconosciuti dal Coni, introduce, nell’ordinamento sportivo, una importante novità. L’articolo 4, comma quinto, infatti, prevede che: Il socio minorenne viene convocato alle assemblee e partecipa con diritto di voto al raggiungimento del sedicesimo anno di età con esclusivo riferimento all’elezione dei delegati al congresso territoriale …” (sul punto vedi anche “Il diritto di voto ai minorenni”).

 

La particolarità della scelta adottata (ratificata dal Coni in sede di definitiva approvazione dello Statuto) si ricava sia dal riconoscimento del diritto di voto al minorenne sia dalla circostanza che questo diritto appare limitato (ad esempio non esercitabile in sede di approvazione dei bilanci).

 

Ci si chiede se questa scelta possa essere oggetto di censure sotto il profilo della legittimità.

 

Il codice civile detta disposizioni relativamente all’esercizio dell’impresa commerciale da parte del minore. Nulla dispone in ordine alla partecipazione ad enti non commerciali in cui difetta l’elemento del rischio di impresa ed un fine egoistico, argomenti che hanno influenzato il regime degli articolo 320 e seguenti cod. civ..

 

Al minore, se non emancipato (articolo 397 cod. civ.), non è consentito di intraprendere l’esercizio di una impresa commerciale ma solo di “continuarlo previa autorizzazione del tribunale su parere del Giudice tutelare” (articolo 320 cod. civ.); il giudice tutelare decide se continuare o alienare l’azienda commerciale che si trova nel patrimonio del minore sottoposto a tutela (articolo 371 cod. civ.).  Il legislatore ha certamente tenuto conto del legame indissolubile tra l’attività di impresa ed il rischio connesso e soprattutto della sua incidenza in ragione dell’inizio di una attività di impresa. Ciò in quanto la gestione del rischio presuppone la sua conoscenza e comprensione per farlo evolvere in termini positivi e considerarlo alla stregua di altri fattori produttivi; passaggi questi non verificabili in anticipo prima di intraprendere una attività, ma valutabili in caso di attività in essere per conseguire il giudizio sulla profittabilità dell’impresa e quindi sulla convenienza della sua continuazione.

 

Il minore può essere titolare di quote ed azioni societarie; il genitore quale titolare dell’usufrutto legale sulle partecipazioni sociali del figlio minore esercita il diritto di voto. In tal caso si tratta di “atti di esercizio dei poteri di godimento e di gestione che spettano al genitore; atti che questi pone in essere agendo in nome proprio” (Cass. 6360/2014; cfr. app. Torino 15.10.1992). 

 

È in luce un ulteriore aspetto della responsabilità genitoriale connesso al dovere di amministrazione e gestione dei beni del minore “affinché essi possano soddisfare esigenze dell’intera famiglia” (Cass. 6360/2014).  Posto che l’usufrutto legale spetta ai genitori “responsabili”, esso concretizza una modalità di gestione e di amministrazione dei beni del minore, non sottratta al regime di cui all’articolo 320 cod. civ., con funzione non solo patrimoniale ma solidaristica assegnata dal disposto di cui all’articolo 324 cod. civ. in ordine all’impiego dei frutti percepiti secondo logiche di mutualità familiare.

 

La normativa specifica pare circoscrivere ai rapporti a contenuto patrimoniale l’ambito di attribuzione della funzione sostituiva dei genitori che operando in luogo e nell’interesse dei figli li rendono giuridicamente attivi nel rapporto con il mondo esterno; restano quindi escluse le attività sostanzialmente e funzionalmente prive del connotato della patrimonialità. Queste ultime sarebbero tutte ricomposte nella relazione tra genitori e figli connessa alla loro educazione secondo i principi di cui all’articolo 316 cod. civ.. 

 

Costituisce esplicazione di un diritto di libertà del minore la propensione di associarsi per lo svolgimento di attività sportiva.

 

È una scelta educativa che si concretizza in atto di ordinaria amministrazione: sull’adesione all’opzione del minore non può imporsi la potestà autoritativa del genitore di segno contrario, funzionando il valore individuale espresso come limite al potere di indirizzo dei genitori. Il potere di rappresentanza conferito ai genitori ex articolo 320 cod. civ. si estende a tutti gli atti  anche se a contenuto non  patrimoniale.

 

Il minore “conclude” il contratto associativo a mezzo del genitore; si tratta di attività di ordinaria amministrazione che può essere svolta disgiuntamente dai genitori esercenti la responsabilità genitoriale.

 

Il minore acquista lo status di associato che gli attribuisce i diritti collegati; fra questi il diritto di partecipare all’assemblea, il diritto di voto oltre al diritto di fruire delle attività e delle iniziative sportive.

 

Nulla quaestio sulla titolarità del diritto; la questione è sull’esercizio del diritto di voto posto che il diritto di partecipazione all’assemblea non è avversato da sensibili argomenti

 

Ritenuta come generale l’ammissibilità del minore in assemblea, non deve sorprendere il patto sociale che garantisce l’esercizio del diritto di voto al socio minore che abbia raggiunto una età ragionevolmente corrispondente al livello di sviluppo psico-fisiologico dell’individuo.

 

È plausibile la limitazione dell’esercizio a determinate materie ovverosia quelle che intersecano l’amministrazione delle risorse dalla quale dipende il soddisfacimento delle posizioni attive che si collegano allo status di socio.

 

 

Leggi tutto

I certificati medici per le attività sportive non agonistiche

13/06/2016 di Guido Martinelli

Preannunciata da due circolari del Ministero della Salute del 16.06.2015 e 28.10.2015, lo scorso 10 giugno,  firma del Segretario Generale, il CONI ha ottemperato, con una propria circolare, alla richiesta di definire, in accordo con lo stesso, i confini dell’attività sportiva non agonistica all’interno dell’ordinamento sportivo ai fini degli obblighi sulla tutela sanitaria delle attività sportive.

 

Si chiarisce, in premessa, che nulla cambia per le attività a carattere agonistico (ai sensi del D.M. 18/02/1982). Queste rimarranno soggette alla certificazione sanitaria che preveda l’idoneità specifica alla pratica di una determinata disciplina sportiva.

 

In riferimento, invece, alla pratica non agonistica (si ricorda che la qualificazione come agonistica o meno dell’attività promossa è di competenza della Federazione o dell’Ente di promozione sportiva di riferimento), il CONI ha effettuato una distinzione tra 3 tipologie di tesseramento. Va ricordato, in partenza, che stiamo esaminando un atto amministrativo che deroga provvedimenti approvati con decreti ministeriali e che, pertanto, sotto questo profilo presenta degli aspetti di dubbia efficacia.

Secondo le indicazioni del massimo ente sportivo italiano le Federazioni e gli Enti di promozione dovranno provvedere ad uniformare la loro disciplina sul tesseramento secondo i seguenti principi

 

a)            Tesserati che svolgono attività sportive regolamentate

Vige l’obbligo del certificato di idoneità non agonistico (come definito ed individuato da ultimo con Linee Guida Min. Salute 8/08/2014), per tutti i tesserati in Italia che svolgono attività organizzate dal CONI o da soggetti da questo riconosciuti ( Federazioni sportive nazionali, discipline sportive associate, enti di promozione sportiva) ritenuta a carattere non agonistico fatta eccezione per quanto previsto sub b).

 

b)          Tesserati che svolgono attività sportive che non comportano impegno fisico

Non sussiste obbligo di certificazione (ma la circolare raccomanda comunque un controllo medico) per tutti i tesserati in Italia con la qualifica di non agonisti che svolgono attività organizzate dal CONI o da soggetti da questo riconosciuti caratterizzate dall’assenza o dal ridotto impegno cardiovascolare. Vengono elencati una serie di sport (elenco ampliato rispetto a quanto indicato dal Decreto Balduzzi in materia di defibrillatori). Tale elenco non è comunque da intendersi a titolo esaustivo perché la circolare prevede che non vige obbligo di certificazione per tutte quelle ulteriori attività “il cui impegno fisico sia minimo”.

 

I dubbi che nascono da questo punto sono tre. Il primo se questa elencazione possa individuare anche, ai sensi di quanto previsto dall’art. 5 comma 3 del decreto ministeriale 24 aprile 2013, l’area delle società sportive non tenute agli obblighi di detenzione dei defibrillatori semiautomatici e della formazione degli addetti relativi in quanto attività a ridotto impegno cardiocircolatorio

 

Il secondo su quali siano i parametri sulla base dei quali poter far rientrare: “le altre attività facenti capo alle Federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva il cui impegno fisico sia evidentemente minimo” che verrebbero, per l’attività non agonistica, comunque esentati dal certificato e chi abbia la competenza per poterlo attestare.

 

Il terzo è di carattere più generale e coinvolge la disposizione di cui all’art. 2050 del codice civile. La norma disciplina la responsabilità per “attività pericolosa” (si ricorda che per la giurisprudenza, ad esempio, costituiscono attività pericolose quelle del tiro, qui esentate dal certificato – vedi tra tutte C. Cass. 28.09.1964 n. 2242, C. Cass. 30.11.1977 n. 5222) per le quali chi cagiona un danno ad altri “è tenuto al risarcimento se non prova di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno”. La circostanza che, in questo caso, non sia stato richiesto un certificato preventivo siamo sicuri non produca comunque una responsabilità del gestore della linea di tiro che non chieda il certificato sulla base di un documento di natura amministrativa?

 

c)            Tesserati che non svolgono alcuna attività sportiva (non praticanti)

Rientrano in tale tipologia di tesseramento tutti i tesserati dichiarati “non praticanti” da FSN, DSA ed EPS. Tale specifica qualifica dovrà risultare già all’atto del tesseramento con inserimento in un’apposita categoria all’uopo istituita.

 

Questa è la categoria in assoluto più oscura. In via preliminare si pone una domanda: il tesserato “che non svolge alcuna attività sportiva” per quale motivo dovrebbe tesserarsi? Le Federazioni dovranno prevedere tesseramenti differenziati al fine di evitare che i non praticanti poi, alla fine “pratichino” a scapito della Federazione stessa? Se l’attività in esame è quella che, fino ad oggi, abbiamo definito come “ludico – motoria” quale diventa il confine tra la stessa e quella non agonistica per la quale sarebbe necessario comunque la certificazione?

 

Credo che il lavoro per le Federazioni (e le conseguenti responsabilità) per le conseguenti modifiche alle carte federali non sia né facile né semplice.

 

Consentitemi una riflessioni conclusiva. La disciplina originale sui certificati medici era in vigore dai primi anni 80. Per trent’anni purtroppo non ha risparmiato decessi ma, forse, ne ha anche evitato qualcuno. Siamo proprio sicuri che valeva la pena di fare questa rivoluzione?

 

 

Leggi tutto

La nuova legge delega sul terzo settore

31/05/2016 di Guido Martinelli

È stata approvata dal Parlamento, in via definitiva, la legge delega di riforma del terzo settore. Se appare indubbio che il giudizio complessivo sulla manovra potrà essere dato solo quando si potranno esaminare anche i decreti attuativi del provvedimento, qualche considerazione sul testo della legge già può essere svolta.

 

Sicuramente non si può fare a meno di partire da quella che appare essere la prima definizione in “positivo” di terzo settore: (articolo 1 comma 1) “Per terzo settore si intende il complesso degli enti privati costituiti per il perseguimento senza scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche, e di utilità sociale e che in attuazione del principio di sussidiarietà e in coerenza con i rispettivi statuti o atti costitutivi promuovono e realizzano attività di interesse generale mediante forme di azione volontaria e gratuita o di mutualità o di produzione e scambio di beni o servizi”. Il primo dubbio è se, in tale definizione, siano ricomprese anche le prestazioni sportive. La risposta affermativa, oltre che dalle affermazioni dei relatori del provvedimento, può ricavarsi dalla previsione indicata all’articolo 4, comma 1, lett. b), laddove si indica che debbano essere individuate le attività che costituiscono requisito per l’accesso alle agevolazioni e viene indicato che esse verranno ricercate “sulla base dei settori di attività già previsti dal decreto legislativo 4 dicembre 1997 n. 460”. La disciplina citata, che ricordiamo riguarda le Onlus, prevede anche lo sport dilettantistico, anche se, in questo caso, solo se rivolto alle categorie disagiate.

 

Quattro appaiono i capisaldi della riforma (articolo 1 comma 2):
• la revisione della disciplina sugli enti senza scopo di lucro di cui al primo libro del codice civile;
• la redazione di un testo unico del terzo settore che comprenda anche la disciplina tributaria applicabile a tali enti;
• la revisione della disciplina in materia di impresa sociale;
• la revisione della disciplina in materia di servizio civile nazionale.
La riscrittura della disciplina civilistica degli enti dovrà essere indirizzata a:
• semplificare il procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica;
• definire le informazioni obbligatorie da inserire negli statuti;
• definire gli obblighi di trasparenza attraverso “forme di pubblicità dei bilanci”, anche con la pubblicazione sul sito internet istituzionale.

 

Alle associazioni e fondazioni che esercitano stabilmente attività di impresa si applicano le norme sull’impresa del quinto libro del codice civile.

 

Non vi è dubbio che la semplificazione dell’iter per il riconoscimento, per le associazioni, della personalità giuridica, appare finalità da perseguire con assoluto vigore. I diversi atteggiamenti assunti dalle singole Regioni sulla materia e il diverso ammontare del patrimonio associativo richiesto producono una disparità geografica del tutto ingiustificata e un ricorso a forme più evolute (ma per gli enti anche più costose quali possono essere ritenute, per le sportive, le società di capitali o cooperative) al solo fine di ottenere la responsabilità limitata (basti confrontare l’irrilevanza del patrimonio necessario a costituire una cooperativa sportiva rispetto agli oltre ventimila euro mediamente richiesti per il riconoscimento in capo ad una associazione).

 

Lo stesso dicasi per i contenuti degli statuti. La disciplina civilistica contiene indicazioni obbligatorie per gli statuti degli enti difformi da quanto richiesto, ad esempio, dall’articolo 148 del Tuir per gli enti associativi che intendano defiscalizzare i corrispettivi specifici versati dagli associati. Creare clausole standard che possano valere, sia ai fini della iscrizione nei registri delle associazioni di promozione sociale, che nel registro Coni delle sportive e che, come tali, diano titolo alle agevolazioni fiscali, appare percorso virtuoso e del tutto praticabile.

 

Deve essere visto in termini positivi anche il riferimento alla pubblicità dei bilanci. Assodato che ne risulta obbligatoria la compilazione, la circostanza che, come già accade per le società di capitali e cooperative sportive, anche le associazioni lo debbano trasmettere al registro imprese di riferimento costituisce efficace strumento di trasparenza sul presupposto che solo la corretta redazione di questo documento ci consente di poter verificare il corretto rispetto dell’assenza di scopo di lucro.

 

Inoltre, sotto il profilo civilistico viene prevista la necessità di:
• disciplinare il regime di responsabilità limitata degli enti riconosciuti come persone giuridiche e la responsabilità degli amministratori, tenendo anche conto del rapporto tra il patrimonio netto e il complessivo indebitamento degli enti medesimi;
• disciplinare il diritto dei soci alla informazione, partecipazione e impugnazione degli atti deliberativi e il rispetto delle prerogative dell’assemblea, prevedendo limiti alla raccolta delle deleghe;
• prevedere la possibilità di trasformazione tra associazione e fondazione.

 

Le modifiche indicate nella prima parte di questo contributo possono lasciare alcune perplessità sotto il profilo della tecnica legislativa utilizzata (decreto delegato che, con ogni probabilità, andrà a modificare la disciplina del codice civile sulle associazioni), ma rimangono, se e ove attuate con logica conseguenzialità, un presupposto ormai non ulteriormente rinviabile di modifica della legislazione sul terzo settore.

 

Esaminiamo, ora, le novità che si presentano sotto il profilo amministrativo:
• individuare criteri che consentano di distinguere, nella tenuta della contabilità e dei rendiconti, la diversa natura delle poste contabili in relazione al perseguimento dell’oggetto sociale e definire criteri e vincoli in base ai quali l’attività di impresa svolta dall’ente in forma non prevalente e non stabile risulta finalizzata alla realizzazione degli scopi istituzionali;
• disciplinare gli obblighi di controllo interno anche ai fini della applicazione di quanto previsto dal decreto legislativo 231/2001 nonché prevedere il relativo regime sanzionatorio;
• armonizzazione e coordinamento delle diverse discipline vigenti in materia di volontariato e di promozione sociale valorizzando i principi di gratuità, democraticità e riconoscendo la specificità e le tutele dello status di volontario;
• introduzione di criteri e limiti relativi al rimborso spese per le attività dei volontari, preservandone il carattere di gratuità e di estraneità alla prestazione lavorativa.

 

Il primo principio potrebbe sottendere, come del resto già avviene ora per le imprese sociali di cui al D.Lgs. 155/2006, la possibile introduzione dell’obbligo del bilancio sociale. Ciò per dimostrare la ricaduta, in termini di crescita per la collettività, dell’attività svolta dall’ente in esame. Viene confermata la tendenza, già introdotta dalla disciplina sulle Onlus, di richiedere agli enti del terzo settore una sempre maggiore attenzione agli aspetti contabili. L’obiettivo possibile appare essere quello di voler defiscalizzare gli utili prodotti da tali soggetti, per il loro obbligo di reinvestimento delle attività prodotte, garantendo però che tutti i terzi che cedano beni o servizi a detto ente provvedano a dichiarare i proventi così conseguiti. Viene giustamente evidenziata la responsabilità dell’ente ai sensi di quanto previsto dal D.Lgs. 231/2001.

 

Viene, infine, prepotentemente in ballo il problema del concetto di volontariato. Ossia se detta prestazione debba essere sempre a carattere gratuito (come accade oggi per gli associati delle organizzazioni di volontariato) o possa anche, come accade ad esempio nello sport, legittimare compensi apparentemente senza limite (si ricorda che i compensi sportivi hanno, per i soci, il solo limite del lucro indiretto).

 

L’articolo 9 articolo fornisce le direttive in materia di misure fiscali e di sostegno economico prevedendo:
a) una revisione complessiva della definizione di ente non commerciale ai fini fiscali e l’introduzione di un regime tributario di vantaggio che tenga conto delle finalità civiche solidaristiche e di utilità sociale dell’ente;
b) una razionalizzazione e semplificazione del regime di deducibilità dal reddito e detraibilità dall’imposta delle erogazioni liberali ai soggetti del terzo settore;
c) una riforma strutturale della destinazione del cinque per mille alla razionalizzazione dei regimi fiscali e contabili semplificati;
d) indicatori di trasparenza e pubblicità delle risorse ad esso destinate.

 

Il contenuto della lettera a) introduce un possibile rischio per molte attività sportive. Ossia i sodalizi che svolgono esclusivamente una attività “mutualistica” a servizio e a vantaggio dei soli associati (come accade in molti circoli di sport individuali quali tennis, vela, golf, ecc.), per i quali, quindi, diventa difficile recepire vantaggi solidaristici o di utilità sociale; pertanto, essi potrebbero vedersi esclusi dalla riscrittura di queste agevolazioni. Sicuramente opportuna appare la revisione del meccanismo di deducibilità e detraibilità delle erogazioni liberali (che, fino ad ora, almeno nel mondo sportivo hanno suscitato un interesse molto parziale) mentre andrà incentivata quella relativa a servizi, quali ad esempio i corsi sportivi, che invece, ha rispettato pienamente le attese e gli obiettivi per i quali era stata introdotta.

 

Altra area a rischio per il mondo dello sport potrà essere legata alla riforma strutturale del cinque per mille che, anche in questo caso, potrebbe non essere più alla portata di sodalizi sportivi preposti solo alla mutualità in favore dei propri associati. Verrà poi richiesto di dare adeguato risalto all’utilizzo che, dei fondi del cinque per mille, viene fatto dagli enti beneficiari.

 

L’introduzione del servizio sociale potrà essere di interesse solo una volta valutati i compensi che saranno riconosciuti a coloro i quali sceglieranno questa strada e che tipo di agevolazione sarà loro prevista per il successivo ingresso nel mondo del lavoro.

 

La fondazione Italia sociale appare l’unico istituto previsto dalla nuova legge di cui non si sentiva la mancanza. Speriamo di essere smentiti.

 

 

Leggi tutto

Studio Legale Associato Martinelli Rogolino Giancola - Piazza Trento e Trieste, 2 – 40137 Bologna
Tel. +39 051.384657 r.a. - P.IVA 04122920376
segreteria@martinellirogolino.it  |  amministrazione.martinellirogolino@pec.it
®2013 ab studio. All Rights Reserved | PRIVACY