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L’opinione

La disciplina fiscale dei centri estivi

18/04/2018 di Guido Martinelli

È ormai imminente la stagione che vede l’avvio, in quasi tutte le città d’Italia, dei c.d. centri estivi. I Comuni stanno pubblicando i bandi per l’assegnazione dei contributi in favore di queste attività che, come è noto, consistono nel gestire, nel periodo di chiusura delle scuole, bambini in età scolare proponendo loro attività ludiche, sportive, di gioco e culturali. I partecipanti vengono portati dai genitori la mattina e rimangono tutta la giornata, fino al tardo pomeriggio, a disposizione degli organizzatori che li intrattengono facendo fare loro le attività sopra indicate.

Nella quasi generalità dei casi i soggetti che propongono queste iniziative sono associazioni sportive o culturali.

Fatta questa premessa il problema che vorremmo mettere a fuoco è il “come” trattare sotto il profilo fiscaledette attività alla luce sia della riforma del terzo settore che della delibera di riconoscimento delle discipline sportive da parte del Coni.

Nel caso in cui il soggetto organizzatore fosse una associazione o società sportiva dilettantistica fino all’anno scorso generalmente il corrispettivo specifico versato dagli iscritti veniva fatto rientrare tra i c.d. proventi “istituzionali” in virtù delle agevolazioni di cui al combinato disposto degli articoli 148, comma 3, Tuir e 4 D.P.R. 633/1972.

Ciò sul presupposto del tesseramento alla Federazione o all’ente di promozione sportiva che veniva effettuato per tutti gli iscritti.

Ma anche in passato tale scelta non era priva di criticità. Infatti, di solito, la retta comprendeva anche la somministrazione del pranzo (e, in alcuni casi, anche della colazione e della merenda).

Il quarto comma del citato articolo 148 Tuir prevede, in deroga al comma precedente, che la defiscalizzazione dei corrispettivi specifici non possa trovare applicazione, tra gli altri, proprio alla somministrazione di pasti. Appare, pertanto, perlomeno dubbia la possibilità di poter applicare la defiscalizzazione all’intero importo della quota di partecipazione.

In più l’attività viene fatta in favore di chiunque si iscriva, senza previa limitazione agli associati o ai tesserati per la stessa organizzazione nazionale a cui appartiene l’organizzatore.

Ciò premesso cosa si è modificato quest’anno? Nell’elenco delle discipline riconosciute dal Coni mancaquella che è predominante nell’organizzazione di queste attività, ossia la “motricità” i c.d. “giochi con la palla o senza” svolti solitamente dai bambini.

Ne deriva, ed è questo il dubbio che si intende sollevare, che il compenso richiesto per tali attività, di natura essenzialmente “ludico – motoria” potrà essere ritenuto, come prevede tassativamente la norma in esame, in diretta attuazione degli scopo istituzionali”?

Ovviamente il dubbio verrebbe meno nel caso in cui ci trovassimo di fronte, invece che a un campo estivo, ad un “camp” di specifica disciplina. Il camp estivo di pallavolo, di calcio o di pallacanestro sicuramente rientrerebbe tra le attività di natura istituzionale della associazione sportiva organizzatrice.

Problema analogo potrebbe porsi, anche se solo in futuro (e più precisamente dalla definitiva entrata in vigore della disciplina di cui al titolo X° del codice del terzo settore, quindi il periodo di imposta successivo alla messa a regime del RUTS) anche per le non sportive.

Infatti, da quel momento, quelle che decidessero di rimanere estranee al terzo settore perderanno la possibilità di avvalersi delle agevolazioni di cui all’articolo 148 Tuirquelle che entrassero invece nel registro del terzo settore potrebbero continuare a defiscalizzare i corrispettivi specifici solo diventando associazioni di promozione sociale e soltanto in favore dei propri associati venendo meno, per tali soggetti, il concetto di tesserato.

Ma l’argomento diventa più spinoso quando si tratta di esaminare il “come” inquadrare le risorse umane utilizzate per tali attività.

Infatti, sempre confermando l’eccezione per i camp dedicati ad una disciplina sportiva specifica, gli istruttori e gli animatori dei campi estivi non svolgendo una attività sportiva riconosciuta dal Coni non potranno godere dei compensi sportivi di cui all’articolo 67, comma 1, lett. m), Tuir.

Di conseguenza la possibilità, in questo caso sia per le sportive che per le non sportive, appare essere solo quella di utilizzare soggetti già professionalizzati dotati di partita Iva oppure i cd. contratti “presto”, ossia quella modalità che ha sostituito i vecchi “voucher. Il conseguente aumento dei costi si riverserà, ovviamente, sulle rette previste a carico degli iscritti di questi campi estivi.

 

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I circoli velici e gli istruttori di vela

06/04/2018 di Guido Martinelli

Il D.Lgs. 229/2017 (in G.U. n. 23 del 29.01.2018) ha novellato il codice della nautica introdotto nel nostro ordinamento dal D.Lgs. 171/2005, istituendo e disciplinando, agli articoli 49–quinquies e sexies, la figura professionale dell’istruttore di vela.

È considerato tale: “colui che insegna professionalmente, anche in modo non esclusivo e non continuativo, a persone singole e a gruppi di persone le tecniche della navigazione a vela in tutte le loro specializzazioni, esercitate con qualsiasi tipo di unità, in mare, nei laghi e nelle acque interne”.

Viene previsto un elenco nazionale che abilita all’esercizio della professione in tutto il territorio della Repubblica. Per essere iscritti in detto elenco, oltre ad una serie di requisiti psicofisici, sarà necessario essere munito di apposita assicurazione e aver ottenuto un brevetto rilasciato dalla Marina militare, dalla Federazione Italiana Vela o dalla Lega Navale Italiana. Ogni tre anni sarà necessario frequentare un corso di aggiornamento professionale al fine di mantenere l’iscrizione in detto elenco. Eventuali sanzioni saranno comminate dal Capo del compartimento marittimo del luogo in cui è stata commessa la condotta.

L’istruttore di vela diventa, così, la seconda figura professionale, dopo i maestri di sci (vedi Ec NEWS del 02.12.2015 “Gli Sci club e i maestri di sci), nell’ambito dello sport, ad avere un riconoscimento legislativo che ne consente l’esercizio solo ai soggetti che ne posseggano i titoli individuati dal legislatore.

Si ricorda che la vela, come disciplina sportiva è a carattere dilettantistico e che i circoli velici affiliati alla Federazione Italiana Vela, di conseguenza, sono associazioni sportive dilettantistiche.

Si pone il problema, quindi, se sia applicabile, ai rapporti tra detti sodalizi e gli istruttori di vela la disciplina sui compensi sportivi di cui all’articolo 67, comma 1, lett. m) Tuir.

Stante la recente entrata in vigore della norma in esame, la prassi amministrativa esistente è relativa solo ai maestri di sci. L’Agenzia delle Entrate – Direzione regionale del Piemonte (Nota del 19 settembre 2001 prot. 01/67344, inedita) ha ritenuto che: “La prestazione che il maestro di sci effettua nei confronti degli iscritti allo sci club è attività che rientra nell’esercizio della professione, ciò che esclude che il reddito possa rientrare tra i redditi diversi elencati nell’articolo 81 comma 1 lett. m).

Tale tesi è stata successivamente confermata dall’analogo ufficio della Direzione regionale della Lombardia dell’Agenzia delle Entrate, con nota 07.01.2002 prot. 771 (inedita), in risposta ad istanza di interpello. Anche in questo caso l’ufficio ha ritenuto che: “…si evince che occorre preliminarmente verificare se l’attività di maestro di sci, ancorché esercitata in forma associata, costituisca attività di lavoro autonomo. Sullo specifico argomento, anche l’Inail, con circolare n. 53 del 12 luglio 2000, con riferimento all’obbligo assicurativo per i maestri di sci ha ribadito che essi sono considerati veri e propri lavoratori autonomi e…sotto il profilo fiscale con regolare posizione e iscrizione all’Iva”.

Successivamente la Direzione regionale dell’Abruzzo (Consulenza giuridica n. 915-1/2013 del 18.10.2013) ha mutato parzialmente orientamento, ritenendo che le agevolazioni sui compensi possano essere riconosciuti anche ai maestri di sci purché svolgano: “attività di natura non professionale nell’ambito dello sport dilettantistico”.

A seguire, la Direzione regionale del Friuli Venezia Giulia (interpello 908-106/2014 del 15.07.2014) ha confermato la tesi che detti compensi sportivi siano riconoscibili solo al maestro di sci che svolga non professionalmente tale attività.

Tali documenti di prassi amministrativa dovranno, però, ora essere letti alla luce di quanto previsto dall’articolo 1, comma 358, L. 205/2017 che considera come collaborazioni coordinate e continuative le collaborazioni poste in essere in favore di associazioni e società sportive dilettantistiche qualificandole, ai sensi del successivo comma 359 quali redditi diversi ai sensi, appunto, di quanto previsto dall’articolo 67, comma 1, lett. m) Tuir.

Pertanto se ne deve far conseguire che, almeno a partire dall’entrata in vigore di detta norma, anche le prestazioni sportive dilettantistiche che abbiano come causa una prestazione di lavoro, possono rientrare nella disciplina dei redditi diversi e, come tali, non essere assoggettate a contribuzione previdenziale.

Ne deriva, appunto, che ove la prestazione sia svolta esclusivamente in favore di un circolo velicoregolarmente riconosciuto ai fini sportivi e iscritto nel relativo registro Coni, anche se svolta in via professionale, alla luce della novella al codice della nautica, l’attività dell’istruttore di vela potrà rientrare tra quella di cui all’articolo 67, comma 1, lett. m) Tuir.

 

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Le collaborazioni sportive in attesa della delibera CONI

12/03/2018 di Guido Martinelli

La previsione, contenuta all’articolo 1, comma 358, L. 205/2017, di inquadramento quale collaborazione coordinata e continuativa delle collaborazioni rese a fini istituzionali in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche affiliate alle federazioni sportive nazionali, alle discipline sportive associate e agli enti di promozione sportiva riconosciuti dal C.O.N.I. “come individuati e disciplinati dall’articolo 90 della legge 27 dicembre 2002, n. 289” nonché delle società sportive dilettantistiche lucrative, continua a far discutere, per i suoi profili operativi, i professionisti e i dirigenti sportivi tenuti ad applicarla.

Diventa necessario individuare quali siano le prestazioni ricomprese in detta definizione. Ossia se la qualifica si deve limitare “ai rapporti di collaborazione che si concretano in prestazioni di lavoro esclusivamente personalicontinuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimenti ai tempi e luoghi di lavoro» (articolo 2, comma 1, D.Lgs. 81/2015) il cui secondo comma appare espressamente richiamato nella definizione contenuta nella legge di Bilancio o, invece, se detta definizione racchiuda, comunque, tutte le prestazioni per le quali, per le non lucrative, abbiamo fino ad oggi applicato la disciplina di cui all’articolo 67, comma 1, lettera m),Tuir (i c.d. compensi sportivi) e, per le lucrative, anche le eventuali attività “occasionali”.

Va immediatamente evidenziato come, seguendo l’indirizzo avviato dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro con la sua circolare 1/16 («… la volontà del legislatore…. è stata certamente quella di riservare ai rapporti di collaborazione sportivo – dilettantistici una normativa speciale volta a favorire e ad agevolare la pratica dello sport dilettantistico rimarcando la specificità di tale settore che contempla anche un trattamento differenziato rispetto alla disciplina generale che regola i rapporti di lavoro”), l’approccio al tema deve essere legato alla specificità del fenomeno sportivo.

Partiamo dall’analisi della disciplina sui compensi sportivi prevista dal testo unico delle imposte sui redditi. Questa prevede, per quanto di nostro interesse, due fattispecie distinte, “l’esercizio dirette di attività sportive dilettantistiche” e i “rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di carattere amministrativo-gestionale di natura non professionale”. Con particolare riferimento a questa seconda figura, ove il riferimento alle collaborazioni coordinate e continuative fosse tipizzato avremmo che le “amministrativo – gestionali” occasionali non potrebbero godere dei compensi sportivi.

D’altro canto un uso “atecnico” del termine lo troviamo anche nella disciplina delle attività sportive professionistiche. Infatti l’articolo 3, comma 2, L. 91/1981 prevede, ad esempio, che le prestazioni a titolo oneroso dell’atleta professionista costituiscano oggetto di contratto di lavoro autonomo anche quando, ad esempio “l’attività sia svolta nell’ambito di una singola manifestazione sportiva”. L’articolo 15, comma 1 della stessa legge prevede che le prestazioni sportive oggetto di contratto di lavoro autonomo siano riconducibili, appunto, alle collaborazioni coordinate e continuative (sul punto vedi anche la risoluzione AdE 79/2006).

Ad analogo conclusione si giunge anche facendo ancora riferimento alla circolare 1/16 della INL laddove prevede che: “l’applicazione della norma agevolativa che riconduce tra i redditi diversi le indennità erogate ai collaboratori è consentita, solo al verificarsi delle seguenti condizioni:

  1. che l’associazione / società sportiva dilettantistica sia regolarmente riconosciuta dal Coni attraverso l’iscrizione nel registro delle società sportive;
  2. che il soggetto percettore svolga mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti e delle indicazioni fornite dalle singole federazioni, tra quelle necessarie per lo svolgimento delle attività sportivo – dilettantistiche così come regolamentate dalle singole Federazioni

Non vi è dubbio che il documento di prassi amministrativa si riferisca a tutta la gamma di compensi sportivi ex articolo 67, comma 1, lettera m), Tuir. La qualificazione come collaborazione coordinata e continuativaprevista dal legislatore delle prestazioni “individuate dal Coni” non può, ad avviso di chi scrive, essere ritenuta un “di cui” di quelle “regolamentate dalle singole Federazioni” indicate dall’Ispettorato Nazionale del lavoro.

Ne deriva che l’inquadramento del legislatore non poteva che riferirsi all’intero perimetro, per le non lucrative, del campo di applicazione della disciplina sui compensi sportivi e, per le lucrative, per tutte le prestazioni non riconducibili al lavoro subordinato o all’esercizio di arti e professioni. Ciò anche, per quest’ultime, per evitare che le collaborazioni continuative possano godere della parziale decontribuzione previdenziale di cui all’articolo 1, comma 360, legge Bilancio e quelle occasionali no.

Assodato ciò ne derivano due rilevanti conseguenze operative:

  1. la qualifica delle prestazioni sportive quali collaborazioni coordinate e continuative di tutte le prestazioni sportive decorrerà solo dalla delibera Coni che le individuerà giusto quanto previsto dal legislatore
  2. da ciò deriveranno una serie di adempimenti (comunicazione al centro per l’impiego, cedolino paga, LUL, sicurezza sul lavoro) che il mondo sportivo non ha la forza organizzativa ed economica di rispettare da un lato e che dall’altro, vedi i premi, diventa impossibile fare.

La scommessa sarà vedere se si riuscirà a mantenere una importante qualificazione sotto il profilo lavoristico della prestazione sportiva dilettantistica senza “uccidere” di formalità, in alcuni casi impraticabili, il mondo dello sport.

 

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Cooperative sportive tra riforma terzo settore e legge di bilancio

09/02/2018 di Guido Martinelli

La cooperativa è una fattispecie inserita tra le ipotesi possibili per l’esercizio di una attività sportiva solo a partire dalla L. 128/2004 (legge di conversione del D.L. 72/2004), che ha integrato le forme costitutive delle società sportive dilettantistiche di cui all’articolo 90, comma 17, L. 289/2002.

La caratteristica che connota le cooperative sportive dilettantistiche rispetto alla figura generale tipizzata dal legislatore del codice civile è data essenzialmente dalla tipologia dell’attività svolta, ossia l’attività sportiva dilettantistica. Ciò non influisce sugli elementi essenziali della forma cooperativa. Questa, infatti, potrà essere sia di servizi che di produzione lavoro.

Su quest’ultimo punto si apre una possibile novità legata alla novella della disciplina dei compensi sportivi introdotti dalla legge di Bilancio 2018. L’espresso riconoscimento della prestazione sportiva tra quelle di lavoro nella forma della collaborazione coordinata e continuativa, sia pure atipica, consente di classificarle tra quelle richieste ai fini del computo dei lavoratori delle cooperative di produzione e lavoro.

In sostanza, l’adeguamento dello schema cooperativo ai contenuti prescritti dall’articolo 90, commi 17 e 18, L. 289/2002, non contrasta con la realizzazione dello scopo mutualistico, né con riferimento alla categoria delle cooperative a mutualità prevalente, con i vincoli prescritti dall’articolo 2514 cod. civ..

Le cooperative sportive, per la loro natura di soggetti imprenditoriali, di cui al Libro V cod. civ., “possono”,ove ne sussistano i presupposti, entrare nel Terzo settore assumendo lo status d’impresa sociale, disciplinata dal D.Lgs. 112/2017. Ciò in quanto la lettera u) del primo comma dell’articolo 2 della citata disposizione espressamente elenca, tra le attività di interesse generale esercitabili in via stabile e principale dalle imprese sociali anche: “l’organizzazione e gestione di attività sportive dilettantistiche”.

Questa possibilità sembra produrre, in materia di ristorno, una sorta di doppio regime per il mondo delle cooperative sportive. Quelle, infatti, che decidessero di “non entrare” nel terzo settore dovrebbero necessariamente applicare il regime di cui al comma 18 del citato articolo 90 L. 289/2002 che espressamente, alla sua lettera d), prevede che gli statuti debbano prevedere che: “i proventi delle attività non possono in nessun caso essere divisi fra gli associati, anche in forme indirette”  con conseguente esclusione di ogni forma di potenziale ristorno.

Quelle cooperative sportive che, invece, richiedessero l’iscrizione nei registri delle imprese sociali, potranno, invece, godere della disciplina di cui all’articolo 3 D.Lgs. 112/2017 che apre ad una parziale rimuneratività in favore dei soci, con i limiti ivi indicati.

La circostanza che tale disciplina non sia ritenuta incompatibile con quella sopra descritta deriva da due circostanze.

La prima, la autonoma disciplina prevista dai soggetti del terzo settore che praticano sport rispetto a quelli che si limitano solo all’iscrizione al registro Coni. L’altra, l’avvenuta apertura prevista dalla legge di Bilancio 2018(L. 205/17) la quale ha introdotto nell’ordinamento, appunto, la società sportiva lucrativa. È noto allo scrivente che, facendo riferimento solo alle società di cui al titolo quinto del libro quinto del codice civile, detta ultima disciplina non trova diretta applicazione per il mondo delle cooperative sportive, ma è altrettanto vero che, limitando ulteriormente il principio di assenza di scopo di lucro nello sport dilettantistico, non credo possa far ritenere incompatibile, per le cooperative sportive imprese sociali l’istituto del ristorno.

Si deve però precisare che, in tal caso, ad avviso di chi scrive, la cooperativa sportiva impresa sociale, soggetto del Terzo settore, dovrà necessariamente mantenere l’iscrizione al Registro Coni ai fini del riconoscimento sportivo, ma agirà da soggetto del Terzo settore. Pertanto dovrà rispettare la disciplina (e poter utilizzare le diverse agevolazioni previste) di cui ai D.Lgs. 112/2017 e 117/2017, ma non potrà utilizzare le norme di favore previste per lo sport dilettantistico che fossero con queste in contrasto.

Va ricordato che a queste ultime, stante la previsione che il titolo decimo del codice del terzo settore non si applica alle imprese sociali, viene mantenuta la possibilità di godere delle agevolazioni di cui alla L. 398/1991

Si pone un ulteriore quesito. Possono essere riconosciute nel nostro ordinamento cooperative sociali che praticano attività sportive?

La risposta, ad oggi, non può che essere negativa. Infatti le cooperative sociali rientrano, per il solo fatto di essere tali (ossia senza che sia necessario fare espressa richiesta, come accade per le cooperative non sociali) tra le imprese sociali.

L’articolo 17 D.lgs. 112/2017, novellando l’articolo 1, comma 1, lett. a), L. 381/1991, include, tra le attività di interesse generale praticabili dalle cooperative sociali, alcune delle ulteriori attività indicate dall’articolo 2 D.Lgs. 112/17 senza ricomprendervi, però, la lettera relativa alla pratica sportiva che, pertanto, dovrà intendersi non ricompresa nel perimetro delle attività praticabili dalle cooperative sociali.

 

 

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Le co.co.co. sportive: ulteriori riflessioni

01/02/2018 di Guido Martinelli

L’inquadramento operato dai commi 358 – 360 dell’articolo 1 L. 205/2017 delle collaborazioni sportive svolte attraverso “prestazioni di lavoro esclusivamente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente anche con riferimento ai tempi e ai luoghi di lavoro (articolo 2 D.Lgs. 81/2015)” quali collaborazioni coordinate e continuative ha suscitato forti reazioni nel mondo dello sport.

Cerchiamo, per quanto ad oggi possibile, in assenza di chiarimenti di prassi amministrativa, di mettere alcuni punti fermi.

Innanzi tutto il comma 358 classifica come tali le prestazioni “individuate dal Coni”. Pertanto, fino all’approvazione di detta delibera da parte del CN del Coni, la presunzione legislativa non può operare e, pertanto, appare ultroneo porsi il problema se si debba dare comunicazione o meno al Centro per l’Impiego dei rapporti attualmente in essere.

Va detto che questa interpretazione produce però una conseguenza negativa.

Non fa immediatamente considerare tali i pregressi rapporti e, pertanto, appare avere un effetto limitato sui contenziosi in essere, legati ad accertamenti per annualità trascorse.

Sicuramente diventa superata la posizione assunta dall’Ispettorato Nazionale del Lavoro con la sua circolare 1/16 laddove prevedeva che l’applicazione della norma agevolativa che riconduce tra i redditi diversi le indennità erogate ai collaboratori è consentita solo nel caso in cui il soggetto erogatore sia iscritto al registro Coni e “il soggetto percettore svolga mansioni rientranti, sulla base dei regolamenti e delle indicazioni fornite dalle singole federazioni, tra quelle necessarie per lo svolgimento delle attività sportivo – dilettantistiche così comeregolamentate dalle singole Federazioni.

Questa interpretazione aveva scatenato moltissime delibere, del più vario contenuto, adottate dalle Federazioni e dagli enti di promozione sportiva, i cui effetti decadranno, per i fini in esame, dal momento in cui il Coniadotterà la delibera prevista dalla legge di Bilancio 2018.

La delibera Coni potrebbe cominciare a dare una risposta anche ad un ulteriore interrogativo che si pone dalla lettura del comma 359.

L’inquadramento come co.co.co. delle prestazioni in esame viene indicato solo in favore delle associazioni e società sportive dilettantistiche (in quest’ultimo caso sia lucrative che non). Possiamo ritenere che analoga classificazione sia applicabile anche alle stesse prestazioni svolte in favore del Coni, delle FSN, DSA ed EPS?

La risposta non può che essere positiva. Infatti in forza del principio della indisponibilità degli inquadramentisotto il profilo lavoristico, da anni affermato dalla giurisprudenza, ad analoghe prestazioni e mansioni non può che conseguire analogo inquadramento.

Pertanto, sia pure in attesa di un auspicabile chiarimento, anche solo sotto il profilo amministrativo, sicuramente l’applicazione ampia della norma appare convincente.

A detto inquadramento, oltre agli adempimenti conseguenti già noti (comunicazione al centro per l’impiegoprima dell’inizio del rapporto, predisposizione e rilascio della busta paga, tenuta del libro unico del lavoro) si affiancherà, a far data dal primo luglio 2018, l’applicabilità di quanto contenuto nei commi 910 – 912 sempre della legge di Bilancio 2018. Ossia l’obbligo anche per “ogni rapporto di lavoro originato da contratti di collaborazione coordinata e continuativa” di corrispondere i compensi “attraverso una banca o un ufficio postale”: attraverso modalità, pertanto, rigorosamente tracciabili.

La sommatoria di questi adempimenti (della cui onerosità a carico delle sportive non ci nascondiamo il peso) porta necessariamente ad una ulteriore riflessione, ossia il campo di applicazione della presunzione relativa di rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.

Il problema maggiore è legato alle prestazioni svolte con continuità, a carattere oneroso, da parte degli atleti dilettanti.

La circostanza che i medesimi non appaiono tra i soggetti tenuti al pagamento dei contributi previdenziali alla gestione spettacolo ex Enpals (in quanto non ricompresi tra i soggetti elencati nel noto decreto ministero del lavoro 15.03.2005 che ha riscritto le categorie di soggetti tenuti a quest’obbligo) non sembra motivazione sufficiente per ritenerli esclusi, a meno che non si voglia sostenere che diversa sia la causa del loro rapporto (ad esempio ludica).

Ma se fossero effettivamente compresi nasce una tematica di non facile soluzione. Il loro rapporto, ai fini della comunicazione al centro per l’impiego, decorre dal momento del tesseramento o da quello della sottoscrizione del relativo contratto economico. E, in presenza di vincolo sportivo pluriennale, cessa con il termine del “contratto” o con quello del tesseramento?

Problema analogo ma con “aggiunta” per gli atleti tesserati per sportive lucrative. Il contenuto del comma 360 che prevede, per le co.co.co con società lucrative, l’iscrizione alla gestione spettacolo, per gli atleti, può essere letto come integrazione del citato decreto del 2005 che non li comprende?

Un chiarimento, sul punto, appare indispensabile e urgente.

 

 

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Società sportiva dilettantistica lucrativa: necessità o follia=

20/12/2017 di Guido Martinelli

L’avvenuto inserimento, da parte del Ministro dello Sport Lotti, nello schema della prossima legge di bilancio di una serie di provvedimenti sullo sport tra i quali la creazione di una figura di società sportiva dilettantistica lucrativa ha scatenato, sulla stampa e sui social notevoli polemiche. Tutti gli enti di promozione sportiva si sono schierati compatti contro questo provvedimento che potrebbe anche, pertanto, non avere, nel suo iter parlamentare, vita facile.

Dato per premesso, quindi, che stiamo parlando di una ipotesi di lavoro (ove venisse effettivamente approvato dal Parlamento mi riservo ulteriori e più puntuali considerazioni) non possiamo che salutare con favore l’eventuale approvazione del provvedimento.

Innanzitutto dobbiamo evidenziare due aspetti in premessa. In origine anche lo sport professionistico prevedeva la partecipazione solo di società non lucrative. E’ solo con la novella del 1996 alla legge 91/81 che per il professionismo sportivo è stata aperta la porta alla lucratività. Altrettanto accadeva con le imprese sociali, inizialmente solo “non profit” (d. lgs. 155/06) e ora, dopo la riforma del terzo settore, il d. lgs. 112/17 che ha integralmente rivisto la materia al suo art. 3 co. 3 ne contempla la possibilità (sia pure parziale e limitata) di distribuire utili.

Se appare altrettanto pacifico che molti sodalizi dilettantistici hanno volumi d’affari più cospicui di molte realtà professionistiche, la domanda che sorge spontanea è: perché il mondo dilettantistico non dovrebbe aprire al profitto?

La funzione iniziale della non lucratività era legata alla crescita per investimenti interni. Le risorse che venivano prodotte, avendo l’obbligo di reinvestimento integrale, avrebbero prodotto incremento di attività.

Questo nei fatti non avviene. Anche (ma ovviamente non solo) a seguito della possibilità di riconoscere ingenti “compensi sportivi”, di fatto scarsissime risorse prodotte dal mondo dilettantistico vengono reinvestite all’interno dello stesso.

La crisi della finanza pubblica impone la necessità di dragare capitali privati in favore dello sport dilettantistico e solo remunerandolo avremo la possibilità di ricercarlo.

E’ sufficiente che la norma contenga ben definiti e differenziati i due percorsi, quello non lucrativo e quello for profit. D’altro canto nel sociale abbiamo infiniti esempi di convivenza, nello stesso settore, di attività lucrative e attività che invece statutariamente non lo sono.

Qualche battuta sul testo che ha iniziato il suo iter parlamentare. Viene previsto, come già accade anche per l’impresa sociale, che la figura della società sportiva dilettantistica lucrativa potrà essere facendo riferimento a tutte quelle previste dal libro quinto del codice civile. Potranno essere, pertanto, costituite, oltre che in forma di società di capitali o cooperativa, anche come società di persona (ad esempio società in nome collettivo).

A pena di nullità lo statuto dovrà indicare la dicitura “società sportiva dilettantistica lucrativa”, nell’oggetto sociale lo svolgimento e l’organizzazione di attività sportive dilettantistiche (si segnala che detta attività non necessariamente viene indicato che debba essere prevalente, pertanto potrà essere inserita all’interno di altre attività imprenditoriali poste in essere dalla società sportiva medesima, ad esempio gestione di un centro estetico o di dimagrimento), il divieto per gli amministratori di ricoprire analoghi incarichi in altre associazioni o società sportive dilettantistiche, norma già presente al comma 18 bis dell’art. 90 della legge 289/02, e, come novità, l’obbligo di prevedere nelle strutture sportive “in occasione dell’apertura al pubblico dietro pagamento di corrispettivi a qualsiasi titolo” di un laureato in scienze motorie con la qualifica di direttore tecnico.

Questa appare la parte più “incompiuta” ad oggi della bozza di testo in esame in quanto, per come attualmente formulata, dovrebbe essere applicata anche in occasione della disputa di gare sportive con ingresso a pagamento per gli spettatori, che, ove così fosse, non se ne comprenderebbe assolutamente la ratio.

Con ogni probabilità il legislatore ne voleva limitare l’istituzione solo alle attività corsistiche svolte in palestra ma la terminologia usata appare equivoca. Così come dubbi permangono sia sulla necessità obbligatoria della presenza del responsabile tecnico per tutta la durata della apertura del centro (in tal caso sarà necessario almeno incaricare due soggetti diversi a tale mansione) e su quali siano le sue effettive responsabilità in merito al ruolo ricoperto.

Viene prevista la riduzione al 50% dell’aliquota Ires e l’aliquota iva applicabile sulle prestazioni al 10%.

Questa dovrebbe significare l’assenza di ogni forma di attività istituzionale, pertanto tutti i proventi diventerebbero soggetti ad iva e componenti positivi di reddito, tutti i costi inerenti saranno deducibili e con applicazione della rivalsa Iva. Non sarebbe più necessario, pertanto, inserire in statuto i criteri, tanto bersagliati, previsti dall’art. 148 del Tuir. Ovviamente non si potrebbe neanche godere delle agevolazioni per l’attività commerciale,  della legge 398/91.

Sarà comunque necessario che le Federazioni e gli enti di promozione sportiva recepiscano nei loro regolamenti questa nuova realtà e adottino le relative modifiche ai loro regolamenti.

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Il codice del terzo settore e le sportive dilettantistiche

01/12/2017 di Guido Martinelli

Se le sportive non appaiono ricomprese tra i soggetti del terzo settore indicati dal D.Lgs. 117/2017, la disciplina dell’indicato codice del terzo settore ha, comunque, una serie di conseguenze che possono coinvolgere le associazioni e società sportive dilettantistiche pur se queste abbiano evitato con cura di iscriversi nel nuovo Registro unico del terzo settore.

In particolare ci riferiamo all’articolo 148 Tuir la cui nuova formulazione (che, si ricorda, entrerà in vigore solo dal primo periodo di imposta successivo alla pervenuta autorizzazione dalla UE e all’entrata in vigore del RUTS) elimina dall’elenco degli enti associativi beneficiari della norma i sodalizi culturali, assistenziali, di promozione sociale e di formazione extrascolastica della persona.

Si ricorda che la disciplina in esame consente la decommercializzazione dei corrispettivi specifici versati da associati e tesserati a fronte di servizi erogati in conformità alle finalità istituzionali da parte degli enti ricompresi nella norma.

Cosa accade oggi. Le associazioni sportive, solitamente, hanno un oggetto sociale non limitato solo allo sport ma che ricomprende anche attività ricreative, culturali, di promozione sociale effettuate nei confronti dei propri associati.

Pertanto, ad esempio, il circolo tennis che avesse uno statuto con oggetto sociale ampio che organizzasse, per i propri associati, un ciclo di conferenze o un corso di cucina a pagamento, potrebbe godere della defiscalizzazione ai fini delle imposte sui redditi dei corrispettivi specifici versati dai propri associati in quanto l’attività rimane “conforme alle finalità istituzionali”.

Cosa potrebbe accadere domani con riferimento alle attività culturali poste in essere da una sportiva, pur se previste dal proprio oggetto sociale. Se si considerasse l’organizzatore solo una sportiva, ne deriverebbe che l’attività culturale non sarebbe conforme alle finalità istituzionali e quindi di natura imponibile, se si considerasse anche come associazione culturale non potrebbe più aprirsi la deroga del terzo comma dell’articolo 148 Tuir che, per l’appunto, prevede la decommercializzazione. Ne conseguirebbe l’applicazione del secondo comma del citato articolo e, di conseguenza, la natura di corrispettivo specifico “commerciale” della somma pagata dall’associato.

Ma, in realtà, la situazione è ancora più complessa (o se preferite “farsesca”). Il legislatore, infatti, non ha previsto di modificare l’articolo 4 del D.P.R. 633/1972 che costituisce l’omologo, ai fini Iva, di quello che l’articolo 148 Tuir è ai fini dei redditi.

Pertanto, quando la riforma sarà a regime, l’eventuale “corso di cucina” organizzato da una sportiva in favore dei propri associati sarà provento commerciale ai fini reddituali ma “potenzialmente” (in attesa di eventuali chiarimenti dell’Agenzia delle entrate sul punto) da ritenersi “istituzionale” ai fini dell’imposta sul valore aggiunto.   

Ci si pone ora il problema degli aspetti fiscali connessi alla gestione del posto di ristoro, disciplinato sotto il profilo delle agevolazioni fiscali dal comma 5 dell’articolo 148 Tuir.

Va precisato che le sportive che aderiscano ad un ente le cui finalità sociali siano riconosciute dal Ministero dell’Interno ai sensi e per gli effetti della L. 287/1991 continueranno a godere del percorso facilitato (SCIA) ai fini autorizzativi da parte della Amministrazione Comunale competente ma non potranno più godere della defiscalizzazione dei corrispettivi specifici. Questo in quanto la gestione di un posto di ristoro non potrà rientrare tra le attività per le quali la sportiva rimarrà abilitata ad applicare l’articolo 148 Tuir.

Il comma 8 di tale norma da ultimo citata contiene i precetti che gli enti associativi debbono statutariamente rispettare per poter applicare le agevolazioni previste dai commi precedenti. Tra queste è previsto l’obbligo, in caso di devoluzione del patrimonio per scioglimento della associazione, di interpellare “l’organismo di controllo”, originariamente indicato nella Agenzia per le organizzazioni non lucrative di utilità sociale, diventata poi Agenzia per il terzo settore e poi, a seguito della soppressione prevista dal comma 8 dell’articolo 23 del D.L. 16/2012 (convertito con modificazioni dalla L. 44/2012), confluita nel Ministero del Lavoro e delle politiche sociali.

La domanda che a questo punto ci si pone è se possa essere applicata alla sportiva che non sia anche ente del terzo settore la disciplina di cui al combinato disposto di cui agli articoli 9 e 91 CTS, laddove viene prevista la nullità della devoluzione del patrimonio in assenza di parere da parte del Registro unico nazionale del terzo settore attivato presso il Ministero del Lavoro e una sanzione pecuniaria a carico degli amministratori responsabili. Si ritiene di poter dare parere negativo sulla base del principio generale della tassatività delle sanzioni. Ma, ci saranno, quindi, due percorsi al Ministero, l’uno per i pareri ex articolo 148 Tuir e l’altro per quelli richiesti dagli enti del terzo settore? Onestamente lo dubitiamo ma un chiarimento, viste le conseguenze, sarebbe auspicabile.

 

 

 

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Le assemblee delle associazioni: novità in vista?

15/11/2017 di Guido Martinelli

Una recente sentenza della Corte di Cassazione (Sez. VI – 5 04.10.2017 n. 23228) e una più meditata lettura degli articoli del nuovo codice del terzo settore (D.Lgs. 117/2017) ci inducono a rivedere una serie di comportamenti, fino ad oggi ritenuti consolidati, in merito alle modalità di gestione delle assemblee delle associazioni e delle conseguenze che queste possono avere sotto il profilo civilistico e fiscale.

Partiamo dalla decisione della Suprema Corte. Questa nasce da un ricorso della Agenzia delle entrate avverso una sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Veneto che aveva accolto l’appello di una associazione sportiva dilettantistica che svolgeva corsi di danza. L’accertamento aveva ritenuto non applicabile la disciplina fiscale agevolata, tra l’altro per quanto di nostro interesse, per carenza di democrazia interna.

Il Giudicante di appello avevo condiviso la tesi del contribuente in quanto aveva ritenuto che gli associati erano prevalentemente minori “e quindi inabilitati a partecipare alle assemblee”.

La Corte di legittimità accoglie, invece, la tesi della Amministrazione finanziaria sulla carenza del requisito della democraticità, criterio richiesto dal comma 8 dell’articolo 148 del Tuir, per poter godere della defiscalizzazione dei corrispettivi specifici versati dagli associati.

Dopo aver ricordato la necessità, per costante giurisprudenza, che il diritto alle agevolazioni di cui all’articolo 148 Tuir sia legato all’inserimento in statuto delle clausole ivi espressamente contenute e che sia il contribuente, che accampa il diritto a godere della agevolazione, che dovrà dimostrare l’effettivo rispetto delle stesse, condivide l’assunto della ricorrente secondo cui “la disapplicazione di fatto delle norme statutarie inerenti l’esercizio dei diritti partecipativi degli associati” non può essere giustificata dalla minore età degli stessi “non essendo giuridicamente corretto ravvisarne un’eccezione nella circostanza che si trattasse di persone minori, posto che essi sono rappresentati ex lege dai genitori ovvero dal responsabile genitoriale”.

Pertanto, si afferma che la minore età degli associati non può essere circostanza utilizzata per escluderli dalla vita associativa a causa della loro incapacità di agire in quanto nel caso di specie trova applicazione l’articolo 320 del codice civile.

Se la tesi affermata dalla Cassazione appare collocare contra legem i comportamenti adottati dalla maggior parte delle associazioni che non prevedono la partecipazione degli associati minorenni alle loro assemblee, alcuni contenuti fortemente innovativi inseriti nel codice del terzo settore di segno totalmente contrario impongono una riflessione ulteriore sui criteri fino ad oggi adottati nella redazione degli statuti di detti enti.

Il secondo comma dell’articolo 24, ad esempio, dopo aver confermato il principio del voto capitario apre alla possibilità che “agli associati che siano enti del terzo settore l’atto costitutivo o lo statuto possono attribuire più voti, sino ad un massimo di cinque in proporzione al numero dei loro associati o aderenti”.  Pertanto, per i nuovi enti del terzo settore appare possibile, in presenza di associati che siano sia persone fisiche che enti collettivi del terzo settore, derogare al principio di una testa un voto.

Il quinto comma della medesima norma prevede la possibilità del voto per corrispondenza picconando anche qui il principio della oralità e collegialità delle decisioni assunte in assemblea.

L’articolo 26 introduce due novità salienti. La prima, al secondo comma, laddove prevede la possibilità che la minoranza degli amministratori sia scelta tra persone non associate e (comma quinto) la nomina di uno o più degli amministratori può essere attribuita dall’atto costitutivo o dallo statuto ad enti del terzo settore … o a lavoratori o utenti dell’ente”Quindi, sulla falsariga di quanto già accade da tempo nelle Federazioni sportive nazionali, laddove atleti e tecnici, che non sono giuridicamente associati della Federazione, votano e sono votati, in minoranza, all’interno degli organi amministrativi (consigli federali) dell’ente.

Da rilevare, infine, il quarto comma laddove prevede che l’atto costitutivo o lo statuto possono prevedere “che uno o più amministratori siano scelti tra gli appartenenti alle diverse categorie di associati”. Questo comporterà che, ad esempio, i fondatori potranno direttamente esprimere degli amministratori, anche in numero maggiore di quelli esprimibili dagli effettivi.

Tali previsioni appaiono fortemente innovative rispetto al concetto di democraticità delle associazioni a cui fino ad oggi ci siamo ricondotti che vedeva gli organi sociali come la sede in cui si formava la volontà dell’ente e che, pertanto, doveva vedere la partecipazione di tutti in parità di condizioni.

Il problema si porrà, sotto il profilo fiscale, per quegli enti del terzo settore che vorranno applicare l’articolo 4 del D.P.R. 633/1972, non modificato dal codice del terzo settore, che continua a fare riferimento ad una democraticità vicina all’orientamento della Cassazione e sicuramente distante dai contenuti della riforma del terzo settore.

Ma l’interrogativo finale è ancora un altro. Le sportive, estranee al terzo settore, potranno utilizzare nei propri statuti le aperture previste dal codice del terzo settore?

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Ancora sul lavoro dilettantistico – II° parte

23/10/2017 di Guido Martinelli

Nel precedente contributo abbiamo analizzato le motivazioni attraverso le quali la Corte d’Appello di Firenze (sentenza n. 197/17 del 16/02/2017) ha accolto l’appello di una società sportiva dilettantistica e ha riconosciuto come non dovuti i contributi previdenziali sui compensi erogati a tre istruttori di nuoto.

Ma di interesse appare essere anche il capo della medesima sentenza, che, pur respingendo in questo caso le tesi della ricorrente, motiva l’assoggettamento a contribuzione del compenso erogato alla lavoratrice addetta alle pulizie e alla reception.

Infatti, in questo caso, si trattava di verificare se l’attività rientrasse tra quelle che il legislatore tributario definisce “collaborazioni coordinate e continuative di carattere amministrativo–gestionale di natura non professionale”.

Dall’istruttoria esperita si ricavava: “il carattere professionale dell’attività svolta dalla lavoratrice trattandosi di occupazione abituale e di esclusiva fonte di reddito”. Da ciò i Magistrati ricavano che mancano gli estremi della marginalità “tipica di un impegno occasionale” e, di conseguenza, per tale lavoratrice confermano la pretesa dell’istituto previdenziale.

Va rilevato che la decisione favorevole all’INPS deriva esclusivamente dal carattere professionale dell’attività svolta nel caso di specie, ritenendo, invece, che, per uniformarsi al dettato normativo, la collaborazione amministrativo–gestionale dovesse avere carattere non professionale, inteso come non abituale.

Ne deriva, argomentando al contrario, che una attività letteralmente definita in sentenza quale “addetta alla reception e alle pulizie dell’impianto”, se fosse stata svolta in maniera episodica, sarebbe potuta rientrare tra quelle definite come “amministrativo–gestionali”. Non possiamo nascondere che tale affermazione appare azzardata e non conforme allo spirito e alla lettera di tutta la legislazione sul welfare italiana.

La Corte d’Appello di Milano (sentenza, sez. lavoro, n. 1530/17 del 12.09.2017) conferma in toto tale orientamento giurisprudenziale.

Qui la fattispecie appare invertita. In primo grado, sul ricorso esperito da una società sportiva dilettantistica, il Tribunale aveva accolto la tesi della legittima corresponsione, ad alcuni istruttori, dei compensi ex articolo 67, primo comma, lett. m, del Tuir.

Ricorre contro tale decisione l’INPS ribadendo che, nel caso di specie, l’attività veniva svolta in maniera abitualeprofessionale e, pertanto, fuori dal campo di applicazione della citata norma agevolativa ai fini previdenziali.

La Corte, constata in via preliminare la sussistenza del requisito soggettivo in capo al committente, ossia la legittima natura di società sportiva dilettantistica e che difetta: “invece definizione e disciplina legislativa specifica per l’attività sportiva dilettantistica”.

Sul punto, rifacendosi a propria precedente giurisprudenza, ritiene che, per l’applicazione dell’articolo 67, primo comma, lett. m, ai soggetti che svolgono “esercizio diretto di attività sportiva dilettantistica”, non sia necessario che la stessa debba essere a carattere non professionale.

D’altra parte il mancato riferimento alla professionalità, nel caso di attività sportiva dilettantistica, è ragionevole anche in considerazione del fatto che le prestazioni dello sportivo non professionista, nell’ottica della norma in esame, sono rese a favore di un soggetto senza scopo di lucro, qualificato dal riconoscimento di un ente pubblico (CONI)”, così precisa la Corte lombarda.

“In conclusione, quindi, l’articolo 67 Tuir, della cui violazione INPS si duole, si applica a tutti i compensi erogati agli atleti, come agli allenatori dilettanti, agli istruttori ed ai preparatori atletici e sportivi …” e, sulla base di tali motivazioni rigetta l’appello proposto dall’INPS.

Non vi è dubbio che ormai la prassi amministrativa e la giurisprudenza stanno diventando costanti nell’affermare che nel nostro sistema esiste una disciplina lavoristica “speciale”, quella sportivo–dilettantistica che deroga alle forme di tutela previdenziale e assicurativa che il legislatore ha posto a garanzia delle prestazioni lavorative.

Prendendo atto di ciò ci piacerebbe che qualche decisione ci motivi come tale tesi possa considerarsi comunque compatibile con il contenuto del secondo comma dell’articolo 38 della Costituzione: “I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.”

 

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Ancora sul lavoro sportivo dilettantistico – I° parte

16/10/2017 di Guido Martinelli

Due recenti sentenze delle sezioni lavoro – Corte Appello Firenze n. 197/17 del 16/02/2017 e Corte Appello Milano n. 1530/17 del 12.09.2017 – che si inseriscono in un filone giurisprudenziale ormai in consolidamento, ci consentono di tornare a parlare di inquadramento sotto il profilo lavoristico di coloro i quali svolgono attività sportive dilettantistiche.

Il tema è noto: i compensi per prestazioni sportive dilettantistiche hanno trovato una loro precisa collocazione sotto il profilo fiscale tra i redditi diversi (articolo 67, comma 1, lett. m), Tuir), tuttavia, non vi è un analogo inquadramento sotto il profilo lavoristico.

Pertanto, a far data dalla L. 342/2000 (che ha introdotto la disciplina oggi in esame) si controverte se tale forma di emolumento a tassazione agevolata (si ricorda che la sua collocazione tra i redditi diversi ne fa conseguire il suo non assoggettamento a ritenute previdenziali e assicurative e alla conseguente copertura) si possa riconoscere “anche” a chi svolge detta attività in via principale ancorché non esclusiva o comunque come fonte prevalente di reddito.

A fronte di una iniziale corrente giurisprudenziale di segno contrario (vedi tra tutte: Cassazione Civile n. 31840/2014) alla possibilità di inquadrare prestazioni di “lavoro” tra quelle per le quali sono previsti i compensi in esame, sono state pubblicate in questi ultimi anni diverse sentenze, (in speciale modo di Corti d’Appello) che hanno statuito la natura di “norma speciale” dei compensi sportivi (sul punto vedi anche la circolare n. 1/16 dell’ispettorato nazionale del lavoro) ritenendoli, pertanto, giustificati anche in quei casi in cui si controverta di rapporti la cui causa sia una vera e propria prestazione lavorativa.

In questa direzione si inseriscono anche le due decisioni in esame.

I Giudici toscani hanno esaminato una opposizione a una cartella esattoriale emessa dall’INPS, la cui validità era stata confermata in primo grado, per mancato pagamenti di contributi previdenziali da parte di una società sportiva dilettantistica nei confronti di tre istruttori di nuoto ed una addetta alle pulizie e alla reception dell’impianto sportivo.

Il ricorso si fondava, essenzialmente, nella censura della nozione di professionalità nello svolgimento della prestazione da parte dei lavoratori (e quindi della impossibilità di catalogarla quale prestazione dilettantistica) posta a fondamento della decisione impugnata.

Il ragionamento del Giudicante di secondo grado parte dall’esame del decreto ministeriale del 15.03.2005 che, rideterminando le categorie di lavoratori da iscrivere all’allora ENPALS, inserisce anche gli addetti agli impianti sportivi “indipendentemente dal carattere subordinato o meno delle prestazioni rese”. Da ciò deriva che: l’eccezione (all’onere fiscale e contributivo) è costituita dall’articolo 67, comma 1, lett. m) del D.P.R. 917/1986 …”.

Citando poi l’interpretazione autentica recata dall’articolo 35, comma quinto, della L. 14/2009, (“nelle parole esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche … sono ricomprese la formazione, la didattica, la preparazione e l’assistenza all’attività sportiva dilettantistica …”) si ricava l’intenzione di “estendere l’esonero contributivo anche ad attività rese al di fuori delle vere e proprie manifestazioni sportive ma che a queste fossero funzionali …”; ciò porta ad affermare che: “le sole attività sportive dilettantistiche poggiano su un riconoscimento pubblico (affiliazione delle società alla Federazione riconosciuta dal CONI) che a sua volta realizza una sorta di presunzione del carattere non professionale delle prestazioni svolte nel suo ambito … in ogni caso deve presumersi che la legge abbia inteso proteggere e favorire la peculiare figura del lavoro nel campo dilettantistico”.

Va ricordato come la Corte Toscana era stata un po’ l’apripista di tale orientamento giurisprudenziale (vedi la sentenza n. 683/2014: “... la finalità perseguita dal legislatore è quella di realizzare un regime di favore a vantaggio delle associazioni sportive dilettantistiche esentando dal pagamento dell’imposta (e della contribuzione) quanto queste corrispondano in forme di rimborsi forfettari o di compensi non solo agli atleti ma anche a tutti coloro che collaborino con mansioni tecniche o anche gestionali, al funzionamento della struttura riconosciuta dal CONI. Vi sottende, ovviamente, la necessità di incentivare questo tipo di attività e di alleggerirne i costi di gestione, sul presupposto della oggettiva valenza della funzione, anche educativa che consegue all’esercizio di attività sportive non professionistiche”) teso a riconoscere la “specialità” del rapporto di lavoro sportivo dilettantistico riconosciuta come tale anche dalla già citata circolare n. 1/16 dell’ispettorato nazionale del lavoro.

La circostanza che l’articolo 67 del Tuir definisca “compenso” l’emolumento in esame rafforza la tesi della Corte circa la compatibilità con la natura corrispettiva della prestazione lavorativa.

Sulla base di tali presupposti di diritto il Giudicante di secondo grado ha accolto, per la parte relativa agli istruttori, l’appello della società sportiva dilettantistica.

 

 

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