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Ancora sui compensi sportivi – I° parte

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Stanno girando nel mondo dello sport numerosi messaggi, per la gran parte lanciati da soggetti interessati in quanto organizzatori di corsi di formazioni autorizzati da uno o più enti di promozione sportiva,  secondo i quali i soggetti interessati, per poter percepire i compensi erogati “nell’esercizio diretto di attività sportive dilettantistiche”, debbano essere tesserati per l’ente affiliante della società o associazione sportiva presso la quale svolgono attività e devono essere in possesso di “certificato” abilitativo rilasciato dall’ente stesso quale istruttore di una delle quasi quattrocento discipline sportive riconosciute dal Coni.

 

Proviamo a verificare il fondamento di tali affermazioni.

 

Partiamo da un dato generale. La norma “incriminata”, l’articolo 67, comma 1, lett. m), Tuir classifica i compensi sportivi tra i redditi diversi purché non siano conseguiti “nell’esercizio di arti o professioni … né in relazione alla qualità di lavoratore dipendente”.

 

L’esercizio di arti o professioni viene definito dall’articolo 53 Tuir come “l’esercizio per professione abituale, ancorché non esclusiva, di attività di lavoro autonomo” e che non costituiscano reddito di impresa. Rientrano in tale categoria anche le prestazioni degli sportivi professionisti che ai sensi di quanto previsto dall’articolo 3, comma 2, L. 91/1981 costituiscono contratti di lavoro autonomo.

 

Ne deriva, pertanto, che chi svolge con tali modalità un lavoro sportivo, in quanto ne detiene la professionalità e ne costituisce per lui l’attività prevalente ancorché non esclusiva, rientra in tale categoria e in suo favore non potranno essere riconosciuti i compensi sportivi sopra ricordati che rientrano, dal 2001 (in seguito alla novella operata dalla L. 342/2000), tra i redditi diversi.

 

La casistica concreta si rivolge ai maestri di tennis, ai personal trainer, agli istruttori di pattinaggio o di nuoto che lavorino sia per un centro sportivo che per singoli privati che richiedono le loro prestazioni.

 

A maggior ragione vi rientrano i maestri di sci (L. 81/1991) e gli istruttori di vela (D.Lgs. 229/2017) nella loro qualità di soggetti la cui attività è legata all’iscrizione ad un albo professionale previsto da leggi dello stato.

 

Ma non potranno essere prestazioni sportive nemmeno quelle che: “derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri” (articolo 49 Tuir).

 

Pertanto la “segretaria” del centro sportivo che soggiace ad orari prefissati,a comportamenti imposti e, magari, a sanzioni disciplinari o a richieste di permessi per potersi allontanare dal posto di lavoro rientrerà sicuramente nel novero dei lavoratori subordinati e mai in quello degli “sportivi”.

 

Ristretto, in tal modo, il nucleo di soggetti nei confronti dei quali appare possibile riconoscere la disciplina dei compensi sportivi, appare ora necessario cercare, sulla base dei dati in essere oggi, quali caratteristiche questi soggetti devono avere.

 

Il primo quesito è legato alla necessità del tesseramento all’ente affiliante del soggetto interessato.

 

È chiaro che il tesseramento è adempimento sicuramente da suggerire, non fosse altro per la copertura assicurativa ad esso legata, ma il tema in discussione è se tale tesseramento è richiesto come conditio sine qua non per il riconoscimento del compenso sportivo.

 

Il documento di prassi amministrativa “chiave” per affrontare la fattispecie in esame è la circolare 1/16 dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro.

 

La circolare in esame riporta un passaggio che potrebbe essere fuorviante. Viene, infatti, indicato che il soggetto percettore deve svolgere “mansioni” rientranti tra quelle previste dalle singole Federazioni sportive (concetto poi esteso con altra circolare anche agli enti di promozione sportiva) e che la qualifica acquisita attraverso specifici corsi di formazione tenuti dalle Federazioni non costituisce “un requisito da solo sufficiente per ricondurre tali compensi tra quelli di lavoro autonomo”. Da ciò se ne fa derivare come il requisito del tesseramento costituisca condizioni essenziale, secondo alcuni commentatori per la legittima erogazione del compenso sportivo.

 

Tale affermazione non appare del tutto convincente.

 

È stato già ricordato che, ovviamente, il tesseramento costituisce comunque buona prassi. Ma, dato per assodato questo, non ricaviamo alcuna norma che imponga il tesseramento del percettore. Una limitazione soggettiva ai requisiti per poter godere di un diritto non può che derivare da una norma di legge.

 

Se così fosse, ad esempio, al dirigente volontario che accompagna gli atleti con la sua autovettura sui campi di gara non potremmo riconoscere il compenso sortivo in assenza di tesseramento?

 

Altrettanto al tesserato come giocatore della prima squadra che si presta ad allenare i bambini dei vari corsi di avviamento? O all’istruttore in possesso di brevetto rilasciato da una Federazione che va a prestare attività in favore di un sodalizio sportivo affiliato ad un ente di promozione sportiva?

 

Ma la storia non finisce qui.

 


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